Cuculetto il brigante di Penne

L’UCCISIONE DEL CANONICO

Cuculetto era molto irritato per il comportamento del Canonico della Cattedrale di Penne, Simone Perrotti, il quale, nonostante le minacce ricevute, avesse avuto l’ardire di denunciare alla forza pubblica il ricatto subito oltre a non aver corrisposto la restante somma promessa. Nel contempo, a rincarare la dose si era aggiunta anche la pubblicazione per le vie di Penne di un manifesto col quale si annunciava che il prete avrebbe pagato una taglia di 800 lire a chiunque avesse consegnato alle autorità Emidio D’Angelo, vivo o morto.
Il Delegato di P.S., in una nota riepilogativa così scrive:
“La mattina del 25 decorso Novembre dietro denuncia fatta da Antonio Barbacane che il Canonico Simone Perrotti era stato trovato morto nel fosso Serpacchio in tenimento di Penne/Frazione Incasale/, questa giustizia accedeva immediatamente sopra luogo, e rinveniva il cadavere del Perrotti dentro un fosso profondo e tortuoso, denominato come sopra, fra due colli, su uno dei quali si distende una proprietà del Perrotti con casa colonica abitata dal Barbacane.
Giaceva in posizione supina, col braccio destro ripiegato sul petto sostenuto nel gomito da una pietra, ed appoggiato alla testa e col dorso ad un rialzo naturale del terreno breccioso. A distanza di qualche metro da lui vedevansi alcuni spruzzi di sangue. Il suolo non si presentava affine a legittimare tracce di colluttazione.
Nel fosso, a piè del cadavere, era distesa una corda pel tracciamento di una palificazione da farsi, ed all’uopo stavano preparate due tavole, e cinque o sei pali di legno, un palaferro, ed un fazzoletto pieno di chiodi. I lavori non erano ancora incominciati.
Osservato il cadavere negli abiti, questi presentavano diversi tagli triangolari in diverse parti, ed il corpo denudato offrì alla vista altrettante ferite di egual forma, due delle quali penetranti in cavità, cioè una al dorso e l’altra all’ombelico.
Dalla dichiarazione di Antonio Barbacane e da quelle di Donato Mellone e Giuseppe Toppeta, risulta che fin dal giorno ventuno Novembre, il Perrotti aveva concordato coi primi due un’opera di palificazione da farsi nel fosso per difendere la sua proprietà, e nel giorno 23 aveva loro detto che il giorno 25 si sarebbero incominciati i lavori, promettendo al Mellone di recarvisi ad assistere.
La mattina del 25, circa la levata del sole, il Perrotti si pose in cammino per quella volta, facendosi accompagnare dal Toppeta soccio della sua masseria al piano di S. Francesco, al quale consegnò un palo di ferro ed un fazzoletto di chiodi. Egli teneva sotto il mantello un’accetta, poiché ben sapeva che il bandito Emidio D’Angelo era male intenzionato con lui.
Giunti all’aia della masseria lasciò quell’arma ed il cappotto, e discese nel fosso, dove l’avevano appena preceduti il Melloni ed il Barbacane con tavole e pali. Il Canonico incaricatosi di tendere la corda sulla linea dei lavori da farsi avrebbe detto ai tre contadini di risalire alla masseria per altri pali, restando così solo in quel luogo fuori la vista di ogni abitato, ed i contadini tornando dopo una mezz’ora col carico, l’avrebbero trovato morto nella giacitura come sopra descritta.
Fatti però arrestare il Donato Melloni e l’Antonio Barbacane, come quelli che sembravano più sospetti sia per la conoscenza che avevano da più giorni che il Canonico sarebbe venuto al fosso, sia per la inverosimiglianza che il Canonico aveva voluto rimanere solo a tanta distanza dall’abitato, mentre sapeva già essere minacciato di morte dall’evaso dal carcere di Gaeta Emidio D’Angelo per la mancanza alla promessa di tacere l’estorsione sofferta il giorno cinque Novembre, e di fargli avere altra somma, già infine per non essere credibile che non si fossero trovati preparati all’assassino.
Infatti, poco dopo l’arrivo del Canonico entro il fosso, fu vista da loro una persona vestita da legnaiolo che discendeva dal colle a sinistra del fossato. Questa persona aveva un’accetta appesa sul braccio, lo stile nella mano destra ed il revolver nella sinistra. Rivoltosi al Canonico chiese – dove sono i Carabinieri? tu che dici di portarli sempre teco? – e tenendo in rispetto i tre contadini con l’arma da fuoco, assalì il Perrotti il quale chiedeva il perdono, e smarrito riparava dietro il Barbacane afferrandolo alla giacca, gli diede tanti colpi di stile finchè lo vide cadere a terra agonizzante, poi si allontanò per un sentiero lungo il declivio del fosso. Rimasero i tre contadini sbigottiti dal fatto e rilevarono e composero il cadavere come fu trovato dalla giustizia, completando poi di far credere che non si erano trovati presenti all’assassinio per essersi recati a prendere i pali; e ciò onde evitare un sospetto di connivenza, e più che altro la vendetta di quello ardito malfattore.
Ma tale racconto venne di poi confermato dal Giuseppe Toppeta coi medesimi particolari.
La voce pubblica fin dal primo apprendere della notizia accusava il D’Angelo. Si sapeva la sua ira contro il Canonico per avergli mosso contro la forza pubblica, e per la mancanza della promessa di denaro.
Tanto il testimonio Toppeta che i due contadini arrestati meritano fede nei loro detti perché sono tutti di buona condotta e non ebbero mai rapporti col D’Angelo. La natura dei luoghi spiega abbastanza come costui che frequentava la casa di Domenico Di Leonardo, suocero di suo fratello Domenico, abitante nella frazione Incasale a colle Pincio, potesse di là vedere il prete recarsi al fosso.
La intenzione omicida egli l’aveva manifestata pochi giorni prima ai coniugi Clemente di Francesco ed Anna Scuccimarra, incaricati da lui di riferire al Canonico, certamente per tirarlo in inganno, che per alcuni mesi poteva vivere tranquillo dal che egli si recava nella provincia di Aquila, ma pregasse Iddio d’impedirgli il ritorno altrimenti gli avrebbe fatto saltare le cervella. Questa ambasciata era stata fatta al Canonico e si conosceva anche dal Delegato di P.S.”.

Di seguito quanto denunciato la mattina stessa da Antonio Barbacane al Pretore di Penne:
“Sono Antonio Barbacane fu Matteo, d’anni 26, contadino di Penne, soccio del Canonico Simone Perrotti.
Vengo a denunciare che nel fosso Serpacchio io, Donato Mellone, e Giuseppe Toppeta abbiamo trovato morto il Sacerdote Simone Perrotti mio padrone.
Egli si presentò stamattina al fosso per dirigere certi lavori, e vi rimase solo avendoci mandati alla masseria per pali. Non so dire se abbia patito violenze, perché né io, né i miei compagni ci siamo avvicinati al cadavere”.

Cartina del luogo dell'omicidio del Canonico Perrotti (allegata agli atti del processo)Appresa la notizia il Pretore si recò in loco:
“L’anno 1800settantatre, il giorno venticinque Novembre in tenimento di Penne, alla contrada Serpacchio / Frazione Incasale / ad ore 10 e mezza a.m.
Noi Carlo Quadrio Pretore del Mandamento di Penne, assistiti dal sottoscritto vicecancelliere.
Avuta notizia da Antonio Barbacane che il Canonico Simone Perrotti si è trovato morto qualche ora fa in questa contrada, ed avendo motivo di credere ad una morte violenta, ci siamo subito recati sul luogo colla scorta di guardie di P.S., e col medico cerusico Signor Nicola Tonno fu Vincenzo 48, di Penne, perito eletto d’Ufficio, il quale nelle forme e previe le ammonizioni di rito, ha prestato giuramento a norma dell’art. 299 procedura penale di bene e fedelmente procedere alle operazioni che gli saranno demandate, e di non avere altro scopo che quello di farci conoscere la pura e semplice verità.
Abbiamo quindi rilevato quanto segue.

fosso serpacchioTra i colli di questa contrada serpeggia un fosso profondo che va a scaricarsi al non lontano fiume Tavo, e prende nome dalla contrada medesima. Poco sopra un muraglione di sostegno, quasi al confine del Mandamento di Loreto il fosso è fiancheggiato dalle proprietà in pendio del Canonico Perrotti a destra e del Demanio a sinistra. Da un albero del Perrotti fino a mezzo alveo nel quale scorre scarso rigagnolo, vedesi tesa una corda. Al di là di questa, sul terreno asciutto e ghiaioso, appoggiato colla testa e col corpo ad un rialzo naturale, giace in posizione supina il cadavere  di un uomo vestito da prete con abito talare, i cui lembi rovesciati all’insù sono legati al fianco, calzoni a mezza gamba di panno da contadini color marrone, calze rosse, scarpe basse, il cappello gli sta a mezzo metro di distanza sul fianco sinistro. Ha il braccio destro ripiegato sul petto e sostenuto nel gomito da una pietra, l’altro è disteso lungo la persona. La gamba sinistra è pure completamente distesa, la destra solo a metà.
Dietro la testa, lateralmente, a circa uno, due metri, il terreno è macchiato di sangue in due punti. Il terreno essendo duro non presenta che qualche piccolo scomponimento.
E sopra il fosso nel fondo di Perrotti si vedono due tavole e cinque o sei pali puntuti, ed un palo di ferro, che vuolsi dovessero fornire ad una palizzata lungo la linea della corda.

fosso serpacchio Il fosso a dieci o dodici metri dal cadavere, nella parte superiore fa una curva, e si perde alla vista per una sporgenza del colle a sinistra il quale è coltivato da Donato Mellone colono del Demanio. Nella parte inferiore uno stretto sentiero a mano manca guida giù pel declivio del fosso, lì si osservano le orme di un piede d’uomo rozzamente calzato.
La posizione ora descritta non è in vista delle masserie di Mellone e del Barbacane, né di altri. Si scorge soltanto in distanza sulla cima di un colle la casa rustica abitata dalla famiglia di Tommaso d’Autorio.
Si calcola approssimativamente che per andare e tornare dalla masseria Perrotti e viceversa s’impiegano sette o otto minuti.
Il cadavere a primo aspetto non sembra aver patito violenza. Le scarpe sono lorde di fango e gli abiti di terra asciutta. Fattolo rialzare ha offerto all’occhio un taglio transverso nel dorso dell’abito, presente sangue. Ammiratolo più attentamente si son viste nei panni altre incisioni corrispondenti una alla scapola sinistra, una al fianco, e due al braccio dello stesso lato, una alla parte media dello sterno e una nell’ombelico.
Nelle tasche non si è trovato altro che una scatola da tabacco e tre chiavi.
Messe a nudo le carni vi si riscontravano altrettante ferite, tutte aventi forma triangolare pronunciata.
Dopo questa prospezione, si sono fatti presentare due testimoni per riconoscere il cadavere.
Interrogati sulle generalità hanno risposto, siamo:

  • Giuseppe Toppeta fu Antonio, d’anni 26 contadino di Penne;
  • Gaetano Barbacane fu Matteo, d’anni 33 contadino di Penne.

I medesimi previe le ammonizioni prescritte hanno giurato nelle forme di rito di dire tutta la verità e null’altro che la verità.
Osservato di poi il cadavere a domanda rispondono: Su di questo cadavere riconoscono il sacerdote Simone Perrotti, Canonico della cattedrale di Penne.
Allontanati costoro, il perito ha dedotto il seguente giudizio:
La morte di questo uomo, che riconosco anch’io essere il Canonico Simone Perrotti, è avvenuta da circa due o tre ore, come si appalesa dallo stato del cadavere freddo, ma non ancora irrigidito nelle membra.
Le sette ferite che gli abbiamo rinvenuto sono tutte triangolari e sembrano causate da una stessa arma puntuta a tre tagli, piuttosto stretta e ben affilata. Le due penetranti in cavità avranno probabilmente leso qualche viscere interessante. Occorre l’autopsia per accertare la causa della morte.
Ciò avutosi abbiamo disposto perché il cadavere venisse, con le debite cautele e sotto scorta della forza pubblica, trasportato nella cappella del Camposanto ritirandone le chiavi, come si è fatto”.

Il giorno successivo, il Pretore di Penne, Carlo Quadrio, assistito dal Cancelliere Donato Rapini, al fine di provvedere alla autopsia del cadavere di Simone Perrotti, nominò all’uopo Nicola Di Tonno, fu Vincenzo, d’anni 48 e Nemesio Falco, fu Francescopaolo, d’anni 44, entrambi medici cerusici di Penne, i quali scelsero come aiutanti Tommaso Feriali d’ignoti, d’anni 29, contadino e Domenicantonio d’Angelo fu Francescopaolo, d’anni 58, becchino di Penne.
Alla fine dell’esame i periti riconobbero le seguenti lesioni:

  1. Una ferita da punta e taglio nella regione sottoscapolare sinistra lunga due centimetri e profonda atto di mortemezzo;
  2. Un’altra ferita nella regione dorsale sinistra lunga due centimetri, larga mezzo, e penetrante in cavità;
  3. Un’altra ferita nel terzo superiore esterno del braccio sinistro, lunga due centimetri e mezzo, larga sette millimetri, e profonda mezzo;
  4. Un’altra pure simile nel terzo medio, nella parte anteriore dello stesso braccio, lunga un centimetro e mezzo, larga mezzo, e profonda mezzo centimetro;
  5. Una ferita pure simile nella parte media dello sterno un po’ a destra, lunga otto millimetri, larga tre, ed interessante la sola cute;
  6. Una ferita pure da punta e taglio nel fianco sinistro propriamente nella aorta iliaca sinistra, lunga due centimetri, larga mezzo;
  7. Una ferita all’ombelico da sotto a sopra, lunga un centimetro, larga tre millimetri, profonda fino al peritoneo, senza lesioni a vasi nervosi od arteriosi

Tutte le descritte ferite sono di forma triangolare pronunciate, e causate da una stessa arma, uno stile a tre tagli. In tutto il resto del corpo non ci sono che tracce di macchie di decubito, né altri segni che indicassero violenza o colluttazione subita.
Questo è il cadavere di una persona perfettamente sana.
I visceri delle due cavità da noi sezionate si trovano nello stato normale.
La ferita all’ombelico non ha portato allo interno alcun guasto.
Quella al dorso è assai profonda. Perforato il polmone in corrispondenza ha passato da parte a parte l’arco dell’arteria aorta con un taglio triangolare a bordi recisi da arma ben affilata. Da questo travaso immediato del sangue rinvenuto nella quantità di circa due litri, tra le pleuri per la lesione del polmone, e dentro al pericardio per la lesione dell’aorta; e conseguentemente con la sincope la morte violenta e repentina.
Nessun altra causa vi ha concorso.

 

Per produrre elementi a sua discolpa, dal carcere dove era detenuto, Antonio Barbacane chiese di essere urgentemente interrogato dal Pretore per dichiarare quanto segue:
 “Mi sono fatto annunciare dal custode delle carceri per palesare intiera la verità, che ieri celai sotto l’impressione della paura destatami dall’accaduto.
Il povero Canonico Simone Perrotti fu assassinato sotto gli occhi miei, di Donato Mellone e di Giuseppe Toppeta. Il Canonico appena giunto col Toppeta indicò la linea dove erano a mettersi i pali dentro il fosso Serpacchio. Io e Mellone legammo la corda ad un albero ed indi ad un piolo come voi l’avete trovata. In questo erano trascorsi sette otto minuti, e potevano essere circa le ore otto quando dalla parte superiore del fosso si fece innanzi di buon passo un contadino giovane coi calzoni corti, e la giacca appena posata sulle spalle, con un revolver in una mano, un’arma lucente lunga e sottile nell’altra, ed un’accetta posata colla lama sul braccio. Io non lo conoscevo. Il Canonico appena lo vide si nascose dietro di me, tenendomi forte per l’abito. Lo sconosciuto col revolver dava delle puntate al Perrotti, ed a me ed al Mellone che cercavamo di parare i colpi intimava – levatevi se no sparo a voi altri -. Toppeta si teneva in disparte impaurito. Io non potevo far nulla per timore dei colpi, e perché il Canonico non mi lasciava. Il malfattore, forse per non offendere me, fece uso dell’arma bianca, ed il Canonico che lo supplicava dicendo – Emidiuccio perdonami, che ti ho fatto -, diede diversi colpi accompagnati da queste sole parole – dove sono i Carabinieri? -. Uno dei colpi, e parvemi l’ultimo, glielo diede in un fianco. Dopo questo sentii che il Canonico mi abbandonava l’abito, e lo vidi cadere a terra morto.
L’assassino, che allora soltanto supposi fosse Emidio D’Angelo dal nome datogli dal Canonico, si mise di buon passo per un sentiero che costeggia il fosso nel senso del suo declivio, e lo persi di vista. Noi componemmo il cadavere nel modo come fu rinvenuto dalla giustizia. Fatto poi consiglio tra noi avemmo la incerta idea suggerita dal timore di comprometterci di dare ad intendere che non eravamo presenti al fatto sebbene saliti alla masseria a prendere i pali. I pali e le tavole che trovaste vicini al fosso sono quelli che io e Melloni vi abbiamo trasportati in un sol viaggio prima che giungesse il Perrotti.
Venni poi io col Toppeta a dare avviso a Massimo Perrotti che suo zio era morto, fingendo di non sapere come.
Da quello che ho detto risulta la mia piena innocenza. Se ho mentito nel mio primo esame fu, lo ripeto, per non espormi ad una vendetta del D’Angelo, e per non destare un sospetto di complicità.
Appena risaliti dal fosso dopo l’accaduto, lo raccontammo tutti e tre al solo mio fratello Gaetano.
Su come il D’Angelo abbia potuto sapere che il Canonico era venuto al fosso non lo so. Io non avevo parlato con alcuno dei lavori che si dovevano praticare.
Non ho testimoni a discarico”.

Successivamente, lo stesso Donato Mellone, anch’egli in carcere,  chiese di poter rettificare la deposizione fornita in precedenza al Pretore, al quale questa volta dirà:
“Sono Donato Mellone, fu Berardino, di anni 40, contadino di Penne, impossidente illetterato, non ho fatto il militare e non sono stato mai processato, né carcerato.
Il timore di una vendetta mi fece mentire la verità. Mi annuncio spontaneo per dirvi l’accaduto.
Il Canonico Perrotti fu assassinato da Emidio D’Angelo in presenza mia, di Antonio Barbacane, e di Giuseppe Toppeta.
Dietro accordi presi con lui fin da venerdì, giorno ventuno di questo mese, ieri mattina a giorno fatto io e Barbacane presi con noi alcuni pali ed alcune tavole calammo dalla masseria al fosso Serpacchio per costruire una palizzata. Attendevamo il Canonico che doveva portare i chiodi ed un palo di ferro, e non si fece attendere. Era con lui Giuseppe Toppeta. Distesa la corda sulla linea dei lavori da farsi e scorsi appena pochi minuti dall’arrivo del Perrotti, calò giù lungo il fosso un contadino con una giacca color marrone sulle spalle e coi calzoni corti. Aveva appoggiata sul braccio un’accetta, e colla sinistra impugnava un revolver, ed impugnava nell’altra una lama lunga e stretta che giudicai fosse uno stile. Lo riconobbi pel D’Angelo. Il Canonico appena lo vide si nascose dietro il Barbacane afferrandolo all’abito. L’assassino minacciando noi col revolver, intimava di tenerci discosti. Invano io cercavo di parare. Barbacane non poteva agire; Toppeta stava impaurito ad osservare. L’infelice Canonico chiedeva pietà con queste parole – perdonami Emidiuccio, che ti ho fatto? io ti ho fatto niente -. Ma questi anziché muoversi a compassione gli domandava – Signor Canonico, dove sono i Carabinieri? tu che non esci senza i Carabinieri? – e gli conficcava ripetutamente lo stile in varie parti del corpo. Il Canonico senza poter profferire altre parole cadde morto, e D’Angelo si allontanò lestamente per un sentiero lungo il declivio del fosso. Intenti noi a soccorrere il caduto, lo abbiamo subito perduto di vista.
Lascio immaginare il nostro sgomento ed il nostro imbarazzo. Composto il morto, come voi lo avete trovato, a due o tre passi dal punto della lotta, ci siamo consigliati a vicenda sul da farsi. Da una parte potevamo esser presi a sospetto, dall’altra dovevamo temere se parlavamo di essere noi pure assassinati. Concludemmo quindi di far sapere alla giustizia di non esserci trovati presenti, perché il Canonico ci aveva mandati per i pali alla masseria. Però abbiamo messo a parte di tutto il fratello del Barbacane a nome Gaetano che stava ad arare assai lungi dal fosso. Io e costui tornammo a guardare il cadavere: gli altri due vennero alla città per avvertirne i parenti, con intesa che avrebbero taciuto come il Canonico era morto.
Da quanto ho detto risulta la mia innocenza. Ignoro come il D’Angelo sia venuto a conoscenza che il prete stava in quel luogo. L’opera da farsi erasi concordata fin dal giorno ventuno, ed il Canonico mi aveva detto il ventitre che sarebbe venuto ad assistere ma io non ho parlato ad alcuno, tranne con l’Antonio Barbacane che doveva prestare l’opera. Non mi sono accorto della presenza del D’Angelo in quella contrada dove io non l’avevo mai visto aggirarsi neppure nei giorni precedenti.
Non ho testimoni a mio discarico.
E’ vero che mentre il Canonico stava nel fosso ho veduto passare un contadino sul colle a sinistra del terreno di proprietà demaniale che io coltivo. Anzi domandai che andava facendo e quegli rispose – vado per ceppi -. Era distante da noi trenta o quaranta passi, e si dirigeva a ritroso del fosso, dove poi scomparve per ripresentarsi subito calando giù dal fossato.
Era il D’Angelo, ma allora solo lo conobbi, quindi fu assassinato. Il Canonico domandava, appena inteso che vi era una persona sul colle – fosse quel brigante? – io dissi di no in buona fede, perché realmente credevo che fosse qualche legnaiolo. Infatti andava vestito come un montanaro, ed aveva una scure appesa al braccio”.

Dopo alcuni giorni, ed esattamente il 28 Novembre 1873, venne ascoltato anche Massimantonio Perrotti, nipote del Canonico che così depose:
“Sono Massimantonio Perrotti fu Raffaele, di anni 30, proprietario di Penne, nipote dell’estinto Simone Perrotti.
Io non sapevo che mio zio Canonico Simone Perrotti, mio convivente, volesse fare delle opere nel fosso Serpacchio. La mattina del venticinque si alzò dal letto poco prima della levata del sole ed uscì senza nulla dirmi. Forse mi tacque che andava in campagna per non essere contradetto, perocchè io lo pregavo sempre di non sortire. Sapendo bene che Emidio D’Angelo era male intenzionato verso di lui per la mancanza alla promessa di mandargli una somma oltre quella estortagli il giorno cinque di questo mese, e per aver manifestato quel fatto alla giustizia. Né egli lo ignorava, perché D’Angelo il giorno innanzi lo aveva fatto avvertire dal nostro soccio Clemente di Francesco che per quattro mesi poteva star sicuro perché egli si recava nel territorio di Sulmona, ma al suo ritorno si sarebbe vendicato coll’ucciderlo. Forse era questa ambasciata intesa a tirarlo nell’agguato.
Verso le nove e mezza vennero di campagna i nostri coloni Antonio Barbacane e Giuseppe Toppeta colla notizia che il Canonico portatosi al fosso Serpacchio per disporre una palizzata vi era rimasto solo, avendo mandati essi e l’altro operaio Nicola Mellone a prendere i pali alla masseria e che al loro ritorno nel fosso l’avevano trovato morto e non ne sapevano la causa per non esserglisi accostati. Subito mi corse l’idea che D’Angelo l’aveva assassinato. Rimandai Toppeta con Clemente di Francesco a meglio verificare e feci subito dare avviso del fatto all’Autorità. Il mio presentimento era pur troppo nero: però i particolari dell’accaduto non li conosco non avendo più interrogato i contadini.
Il Canonico non era solito di portar denaro con se, non teneva orologio né altro oggetto di valore; credo quindi che lo scopo dell’assassinio non sia stato quello di depredarlo.
Non credo che Mellone e Barbacane avessero qualche astio con mio zio.
Barbacane ha preso possesso della masseria soltanto in agosto ultimo, e gli furono sovvenute le sementi. Per meglio dire è nostro soccio da agosto dell’anno scorso, e non ha avuto che dire con noi per le prestazioni. Mellone era uomo di confidenza del Canonico. Toppeta lo conosco per un giovane timido e di ottime qualità.
Porto querela contro il D’Angelo”.

Giuseppe Toppeta, uno dei tre testimoni oculari dell’assassinio del prete, non seguì in carcere gli altri due, perché il Pretore non lo ritenne opportuno. Interrogato lo stesso giorno in cui Cuculetto commise l’omicidio, anche lui diede una prima versione dei fatti secondo come segue:
“Sono Giuseppe Toppeta, fu Antonio, di anni 26, contadino di Penne, soccio dell’estinto Perrotti.
Questa mattina allo spuntar del sole io stavo a lavorare presso la masseria fuori la porta di S. Francesco quando è venuto il mio padrone Canonico Simone Perrotti, e mi ha fatto desistere, ordinandomi di prendere un palo di ferro, che mi aveva fatto portare il giorno innanzi dall’altro suo soccio di nome Vincenzo, e di seguirlo. Non sapevo dove si doveva andare. Egli mi ha consegnato anche un fazzoletto pieno di chiodi, ed avendolo io domandato a che servivano, ha risposto secco secco – vieni appresso a me -. Ci siamo avviati per la strada rotabile di Catignano, poi a sinistra per taluni sentieri, finchè si è giunti ad una sua masseria in contrada Serpacchio. Allora ho visto che, levatosi il cappotto sull’aia, lo ha deposto sopra un mucchio di foglie di granone unitamente ad un’accetta che portava sotto l’abito. Siamo calati poscia nel fosso sotto la collina, ed abbiamo incontrato il soccio Antonio Barbacane e Donato Mellone, i quali tornavano dall’avere scaricato alcune tavole ed alcuni pali. Il prete si ha fatto dare da loro una corda, ed ho visto che l’ha legata ad una pianta sotto il fosso per distenderla sulla linea di certi lavori di palificazione, che voleva fare per mantenere il terreno . Mentre egli faceva questo, noi per suo ordine siamo risaliti alla masseria a prendere altri pali. Tra l’andata, il carico, ed il ritorno si è impiegato circa una mezz’ora. Quando fummo in vista del letto del fosso, scorgemmo il Canonico supino a terra, pallido, immobile. Chiamato non rispose, onde i miei due compagni conclusero che era morto. Fatto consiglio tra noi, credemmo opportuno di non avvicinarci, e di andare subito ad avvertirne la famiglia. Il Mallone restò a guardia. Io e Barbacane venimmo alla città.
Il nipote del Perrotti D. Massimo, udita la cosa, ci rimproverò di non esserci accertati se il Canonico era morto piuttosto che svenuto, e se vi erano tracce di violenza, e mi fece tornare sul luogo dandomi a compagno l’altro suo soccio Clemente di Francesco. Mellone stava ancora al posto dove l’avevamo lasciato. Io alzai il Canonico, e vidi che dietro la schiena aveva un taglio nell’abito imbevuto di sangue, e lo rimisi nella sua posizione. Tornavamo quindi colla triste notizia, che annuncia ad una morte violenta quando incontrammo la Signoria Vostra.
Io ed il Canonico siamo giunti al fosso Serpacchio dopo circa mezz’ora o tre quarti dall’alzata del sole.
Il contegno di Mellone e Barbacane mi parve affatto semplice e naturale alla circostanza. Ci siamo tutti intimoriti, e poiché il Canonico non rispondeva alle ripetute chiamate, abbiamo supposto che era morto. Volevamo poi venire tutti alla città a portare la nuova, ma si è deciso che almeno uno doveva restare a custodia del cadavere. Nessuno di noi voleva rimanere, ma all’ultimo Mellone si arrese.
Barbacane non mi disse nulla per strada, andammo silenziosi ed attoniti.
Nell’andare a Serpacchio col Canonico siamo stati veduti di molta gente che stava qua e là a lavorare, e che so dire chi fosse. Non abbiamo visto Emidio D’Angelo, né persone armate, sospette. Il fosso era deserto”.

Giuseppe Toppeta, così come i due suoi compagni di sventura, nel frattempo incarcerati, si rese disponibile a fornire l’esatta versione dei fatti, dichiarando quanto segue:
“Nel primo esame non ho detto la verità per suggerimento dei miei compagni e me ne trovo male, perocchè una mezz’ora dietro Emidio D’Angelo  è venuto dove lavoravo, vicino alla masseria su questo piazzale di S. Francesco a minacciarmi dicendo – Come mai che gli altri due stanno in carcere e tu no? Bada che se parli questo ti abbrucia – e mi fece vedere il revolver. Io lo rassicurai che avevo negato.
Dunque le cose andarono in questo modo.
Richiesto dal Canonico lo seguii senza che mi dicesse dove esso andava fino alla sua masseria nella contrada Serpacchio, portando un palo di ferro ed un fazzoletto pieno di chiodi. Qui il Canonico non entrò, e depose sull’aia il mantello, ed un’accetta, poi calammo al fosso, Colà stavano Donato Mellone ed Antonio Barbacane, i quali avevano trasportato del legname. Il Canonico si fece dare da loro una corda, ed aiutato da quei due la stese sulla linea dei lavori da farsi. A me disse di trattenermi per riaccompagnarlo alla città, ove doveva dire la messa. Rimasi così sulla riva del fosso, sulla terra fra di qua dall’acqua. Essi stavano al di là dell’asciutto. Erano scorsi pochi minuti dal nostro arrivo, o per dir meglio circa un quarto d’ora quando giù dal fosso tortuoso si presentò improvvisamente Emidio D’Angelo, malvestito alla foggia dei contadini, coi calzoni corti, ghette di panno, giacca posata sulle spalle. Nella destra aveva un lunghissimo stile, stretto in proporzione della lunghezza. Sul braccio sinistro teneva posata un’accetta e nella mano corrispondente impugnava un revolver. Rivoltosi al Canonico gli disse – ti vado cercando da un pezzo. Dove sono i Carabinieri? Tu che dicevi che senza i carabinieri non saresti sortito? Il prete rispondevagli – Perdonami, perdonami Emidiuccio, i Carabinieri non ci stanno; io non ti ho fatto niente di male -  e per istinto di difesa si pose dietro il Mellone ed il Barbacane afferrando costui per la giacca. Invano pregammo anche noi che perdonasse. Egli voleva dapprima sparare al Canonico, ed intimava a me di non avvicinarmi, agli altri di allontanarsi se no li bruciava. Mutato poi consiglio, invece di adoperare il revolver diede al Perrotti diversi colpi di stile, finchè cadde morto. Gli stava sulla sinistra.
Come lo vide cadere per terra il D’Angelo se ne andò giù nel fosso lestamente seguendo il sentiero a mano manca, e disparve.
Il Canonico cadde là dove avete visto il sangue, posato sul fianco.
Mellone e Barbacane lo rilevarono che non dava più segni di vita, e lo composero come lo avete trovato.
Immaginate il nostro sgomento e il nostro imbarazzo. Salimmo subito alla masseria e per istrada il Mellone cominciò per primo a dire che a noi non conveniva di parlare. Barbacane era dello stesso avviso. Dicevano ambedue che era meglio essere presi a sospetto dalla giustizia, che esposti alla vendetta del D’Angelo e della sua famiglia, ed al pericolo di vederci abbruciare  le masserie. Pensarono quindi di far credere che il Canonico ci aveva mandati per i pali ed era rimasto solo. Io stetti sempre in silenzio, ma persuaso di quello che dicevano promisi di seguire il loro suggerimento. Fu messo a parte dell’accaduto soltanto il fratello del Barbacane.
Rimase poi a custodire il cadavere il Mellone col detto fratello di Barbacane, e noi venimmo al paese a portare la notizia che il Canonico l’avevamo trovato morto senza sapere come. D. Massimo Perrotti volle che tornassi a verificare se era morto o semplicemente svenuto e mi diede a compagno Vincenzo di Clemente, o meglio Clemente di Francesco, altro suo soccio. Quando veniste voi ci avete incontrati per via, che venivamo alla città.
Noi non avevamo armi fuorchè un’accetta del Mellone, il quale la teneva posata a terra, e vi diede mano quando il D’Angelo lo minacciava, ma fu da lui costretto a lasciarla col revolver che gli puntava contro.
Come ho già detto nel mio primo esame, lungo l’andata non abbiamo visto che lavoratori in campagna di cui non so fare il nome.
Quando eravamo dentro il fosso, Barbacane e Mellone, guardando sul colle soprastante al fosso medesimo, sul lato sinistro del declivio, dissero che vedevano aggirarsi una persona con una fascina sulle spalle. Il Canonico s’impensierì e disse – fosse quello brigante? – Gli risposero – no, non è esso -. Fu allora che io sortii dal fosso per scoprirlo, ma non lo vidi. Due o tre minuti dopo comparve il D’Angelo”.

Il Pretore di Penne cercò d’interrogare tutte le persone che avessero potuto vedere o sentire qualcosa in merito all’efferato delitto consumato a Serpacchio.
Ecco l’elenco delle dichiarazioni raccolte:
“Sono Antonio Palmucci fu Domenico, di anni 56, di Loreto, domiciliato a Penne, contadino.
Da questa mattina all’alba sto qui sopra il fosso Serpacchio sul comune di Loreto alla sinistra del colle ad arare con diversi giornalieri. Non conosco Emidio D’Angelo. Non ho visto alcuno aggirarsi nella contrada”.

“Sono Giuseppe Palmucci di Antonio di anni 21, contadino di Loreto.
Da questa mattina sto con mio padre ad arare sul colle a sinistra del fosso Serpacchio nel comune di Loreto. Non conosco Emidio D’Angelo. Non ho visto alcuno aggirarsi nella contrada”.

“Sono Liberato Ferrante fu Carmine, di anni 45, contadino di Loreto.
Dall’alba mi trovo ad arare con Antonio Palmucci sul colle a sinistra del fosso Serpacchio, nel comune di Loreto. Non conosco Emidio D’Angelo di Penne. Non ho visto alcuno aggirarsi nei dintorni”.

“Sono Francesco Petrucci, di Antonio, di anni 18, contadino di Loreto.
Dall’alba mi trovo ad arare con Antonio Palmucci sul colle a sinistra del fosso Serpacchio. Non ho visto alcuno aggirarsi nei dintorni”.

“Sono Domenico D’Autorio di Tommaso, di anni 18, contadino domiciliato in tenimento di Penne alla contrada Serpacchio.
La mia famiglia venne ora a stabilirsi in questa contrada alla masseria del Barone De Sanctis. Mio padre sta alla masseria vecchia, qui non siamo che io e mio fratello Vincenzo, e siamo sempre stati occupati dal far del giorno fino adesso a ripulire la stalla, come voi potete osservare. Non ho quindi visto persone aggirarsi nei dintorni”.

“Sono Vincenzo D’Autorio, di Tommaso, di anni 14, contadino di Penne, domiciliato alla contrada Serpacchio.
In tutta questa mattina non ho visto persone aggirarsi nei dintorni essendo rimasto entro la stalla con mio fratello Domenico a ripulirla dal concime”.

“Sono Raffaele Camplese, di Nicola, di anni 55, contadino di Penne.
I parenti di Emidio D’Angelo coltivano terre nella contrada Ponticelli, ed ivi, per più facile soccorso, si aggira frequentemente il bandito, il quale, per ciò che consta a me, non entra mai nella masseria. L’ho veduto Giovedì venti e Domenica ventitre andante mese, giù per i fossi. Era solo ed armato di fucile, e di revolver, e di un’arma bianca lunga che gli pendeva il fodero sotto la giacca. Io penso che sia una daga od una baionetta”.

“Sono Clemente di Francesco, fu Tommaso di anni 32, contadino di Penne, soccio dell’estinto Simone Canonico Perrotti.
Venerdì giorno ventuno andante, a circa due ore di notte, Emidio D’Angelo venne a bussare nella mia casa e poiché mia moglie non voleva aprire, lo disse da fuori a voce alta che intesi anch’io; di avvertire il nostro padrone D. Simone Perrotti che egli andava per la via di Sulmona e stava assente tre o quattro mesi, ma poi sarebbe tornato. Pregasse Iddio che lo arrestassero, in caso diverso gli avrebbe bruciato le cervella, da che gli aveva mosso contro mezza Penne senza ragione, non essendo vero che egli lo aveva depredato. La mattina dopo, tanto io che mia moglie, separatamente, abbiamo riferite queste minacce al Canonico mentre stava alla sua masseria di S. Francesco a cogliere le olive. Egli mi rispose – credi a quello tu? quello ci fa così, ma non se ne va –“.

“Sono Anna Scoccimarro, di Antonio, di anni 28, contadina di Penne, moglie di Clemente di Francesco.
Emidio D’Angelo l’ho veduto tre volte. La prima mi entrò in casa col revolver alla mano per domandare se avevo visto il suo compagno; la seconda passò davanti la porta e salutando tirò via; la terza fu venerdì giorno ventuno di questo mese, a tre ore di notte. Dormivamo tutti quando si sentì bussare alla porta. Alla mia domanda si annunciò il D’Angelo il quale insisteva che aprissi per dirmi una parola. Non posso dubitare che era lui perché ne riconobbi la voce, Egli m’incaricò stando fuori, perché io non volli aprire, di dire al mio padrone D. Simone Perrotti che per quattro cinque mesi poteva star sicuro perché egli andava pella via di Sulmona nella provincia di Aquila; pregasse Dio d’impedirgli il ritorno, altrimenti gli avrebbe fatta saltare la testa con una schioppettata; e ciò pel motivo che gli aveva mosso contro tanta forza, senza che egli gli avesse fatto alcun male. Queste parole me le ripetè, onde non le dimenticassi.
La mattina dopo andai a trovare D. Simone che sorvegliava i coglitori delle olive al suo podere di S. Francesco, e gli feci l’imbasciata in disparte. Come mi ebbe sentita disse – credi a quello tu?; quello fa così, ma non se ne va -. Io le ammonii di stare in guardia perché non ci era da fidarsi. Il Canonico mi disse poi di dare questa risposta al D’Angelo – che esso si era tagliato le gambe da se, e non avrebbe avuto tante persecuzioni se in segreto gli avesse mandato a chiedere del denaro, alla qual cosa egli non si sarebbe rifiutato per trenta o quaranta lire; che il Giudice lo aveva chiamato dopo tre o quattro giorni, e per poco non lo aveva fatto arrestare, per aver taciuto l’azione sofferta -.
La sera di questo stesso giorno fummo chiamati io e mio marito dal Delegato di P.S. al quale raccontammo quanto sopra.
Lo stesso Delegato per tendere un’insidia al D’Angelo volle che portassi l’ambasciata del Canonico alla famiglia del D’Angelo, e per dir meglio che dicessi alla famiglia di mandare l’Emidio a prendere la risposta da mio marito, ma l’Emidio non si fece più vedere”.
 
“Sono Roberto Gungi, fu Pietro di anni 33, Delegato di Pubblica Sicurezza residente a Penne.
Il ventiquattro Novembre, i miei dipendenti seppero dai coniugi Clemente di Francesco ed Anna Scoccimarro che Emidio D’Angelo era stato una notte alla casa loro, e li aveva incaricati di dire al Canonico Simone Perrotti che egli andava nella provincia di Aquila, e quindi per quattro o cinque mesi poteva stare sicuro, ma poi sarebbe tornato a bruciargli le cervella perché gli aveva messo contro tanta forza.
Chiamato il Canonico mi confermò che aveva avuto l’ambasciata. Fatti poi venire i due coniugi ebbi da loro lo stesso racconto.
Pensai di tendere un tranello al D’Angelo, e la Scoccimarro s’incaricò di andare a dire alla di lui famiglia che il marito aveva cosa a comunicargli per conto del Perrotti. Costui con un biglietto, e poscia di persona, mi riferì che la donna non aveva mancato di parlare coi famigliari del D’Angelo, ma che questi le avevan risposto di non sapere dove trovasi.
La mattina appressa il Canonico fu assassinato”.

“Sono Tommaso di Rocco, di Sabatino di anni 33, contadino di Penne.
Emidio D’Angelo l’ho visto una sola volta con un compagno, sul principio di novembre, calare dal colle, ove è la masseria di Domenico di Leonardo, il quale ha dato una figlia in moglie ad un di lui fratello. Mi si è detto che abbia frequentato di giorno e di notte questa casa e le contrade circostanti lungo il fosso Serpacchio. Conosco Donato Mellone ed Antonio Barbacane miei vicini, ed ho sempre avuto opinioni favorevoli nei loro confronti”.

“Sono Liberato di Rocco, di Sabatino di anni 36, contadino di Penne.
Emidio D’Angelo l’ho veduto una sola volta sul principio di novembre discendere col suo compagno armato dal colle Pincio, qui di fronte alla mia masseria, dove è la casa di Domenico di Leonardo.
Donato Mellone ed Antonio Barbacane sono persone oneste ed incapaci di tenere verso a malefatte”.

“Sono Donato Barbacane, fu Orazio, di anni 78, contadino di Penne.
Non ho visto mai Emidio D’Angelo, ma ho sentito dire che frequentava la casa di Domenico di Leonardo in questa contrada a Colle Pincio.
Donato Mellone ed Antonio Barbacane godono buon nome”.

“Sono Antonio Evangelista di Carmine, di anni 31, contadino di Penne.
In questi ultimi tempi la contrada Incasale, fiancheggiata dal fosso Serpacchio, fu battuta quotidianamente da gente armata. Se erano malfattori, o Carabinieri travestiti, io non lo so dire.
Donato Mellone è un’uomo dabbene. Sul principio dello scorso novembre mi ha raccontato di aver visto il D’Angelo col suo compagno, che volevano dargli ad intendere di esser forza pubblica.
Anche Antonio Barbacane ha buon nome nel vicinato”.

“Sono Zopito Evangelista di Carmine, di anni 44, contadino di Penne.
In questa contrada Incasale fiancheggiata dal fosso Serpacchio ho visto spesso della gente armata, che non so dire se fossero malfattori, o agenti della forza pubblica travestiti. Emidio D’Angelo non lo conosco. Si vuole che frequentasse col suo compagno la casa di Domenico di Leonardo sul colle Pincio.
Donato Mellone gode fama di uomo dabbene come pure Antonio Barbacane”.

“Sono Camillo Pavone fu Felice, di anni 38, contadino di Montebello, domiciliato alla contrada Incasale, tenimento di Penne.
Nella nostra contrada, dove io abito, percorsa dal fosso Serpacchio, non ho visto Emidio D’Angelo ed il suo compagno, ma è voce generale che vi frequentino facendo recapito alla casa del parente della famiglia D’Angelo Domenico di Leonardo, il quale per ciò venne arrestato. Donato Mellone ed Antonio Barbacane godono fama di essere persone oneste, incapaci di tener mano a malfattori”.

“Sono Vincenzo Barbacane, di Donato, di anni 43, contadino domiciliato a Penne.
Emidio D’Angelo non lo conosco. Si è detto che frequentava giorno e notte la casa del mio vicino Domenico di Leonardo, suo parente, posta sopra un colle della contrada Colle Pincio, ma io non lo posso attestare, non avendolo visto mai.
Donato Mellone ed Antonio Barbacane, che abitano molto più sotto non sono persone da tenere rapporti con malfattori. Tutto il vicinato ne ha giudizio favorevole”.

“Sono Vincenzo Giovanetti di Tommaso, di anni 25, domiciliato in Loreto Aprutino, contadino celibe.
Posseggo dei terreni in contrada Marzengo, i quali confinano coi terreni lavorati dalla famiglia di Pasquale Zicola. Ho veduto due volte il Cuculetto col quale ho anche parlato. La prima volta fu cinque o sei giorni innanzi della morte del Canonico Perrotti, e la seconda volta fu il giorno istesso in cui il rammentato Canonico fu ucciso: non ho mai però veduto il suo compagno Andrea Ursi. Il giorno in cui fu ucciso il Canonico, il Cuculetto Emidio D’Angelo, mi disse che l’aveva ucciso lui, e ciò doveva essere vero, perché era tutto imbrattato di sangue, ed aveva lo stile, che servì per ucciderlo ancora sanguinoso. Da questo giorno io non son più tornato alle mie terre per timore che facesse anche a me quello che fece al Canonico Perrotti”.

“Sono Pasquale Beati, fu Pietro, di anni 48, fattore del Duca Gaudiosi.
Il quindici di questo mese andante, fui aggredito di pieno giorno sulla strada sotto il convento dei Zoccolanti da Emidio D’Angelo, costui mi appuntò al petto un’arma foggiata a stile, lunga, stretta, a tre tagli come una baionetta militare”.

Nonostante gli attestati di stima e la totale mancanza di prove nei loro confronti, Donato Mellone e Antonio Barbacane restarono rinchiusi in carcere per oltre un mese, fino a quando il Tribunale di Teramo emise la seguente pronuncia:
“Poiché la complicità supposta a carico dei due imputati Barbacane e Mellone, deve ritenersi una reticenza a dire il vero pel panico che incuteva la presenza di Emidio D’Angelo in quei luoghi; poiché il D’Angelo per questo carico deve essere legittimato in arresto; visti gli art. 199 e 250 del rito penale; dichiara non darsi luogo a procedimento penale per inesistenza di reato contro Barbacane e Mellone, ed ordina che i medesimi siano scarcerati.

Teramo, 27 Dicembre 1873”.

 

Google Maps: Il luogo dell'uccisione del Canonico in contrada Serpacchio

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