Cuculetto il brigante di Penne

IL SEQUESTRO DEL CANONICO PERROTTI

Il giorno sette Novembre 1873, si presentò davanti al Pretore Mandamentale di Penne Carlo Quadrio, Massimo Perrotti, fu Raffaele di anni 30, proprietario di Penne, per denunciare quanto segue:
“Nel pomeriggio del quattro andante mese, mio zio sacerdote Perrotti, meco convivente andò in campagna a vedere una sua proprietà detta la Torre poco lungi da questa città. La sera non vedendolo ritirarsi, come al solito non più tardi di un’ora di notte mi posi in agitazione, e lo andai a cercare in casa di mia madre verso le tre ore senza rinvenirlo. Ritornato nella mia abitazione mi posi sul letto vestito sempre in attesa ritornasse. Venuta l’alba sentii bussare alla porta. Era il nostro soccio del piano di S. Francesco Domenico Toppeta il quale mi consegnò un biglietto di mio zio con indirizzo ad Antonio Perrotti, mio secondo nome di battesimo, e colla chiave della casa e dello scrigno di mio zio. Il tutto gli era stato consegnato da Emidio D’Angelo. Egli il Toppeta era ignaro dell’accaduto.
Lo appresi dal biglietto che era piegato ma aperto.
Lo zio mi chiedeva di mandare subito diecimila scudi perché si trovava nelle mani di otto persone. Io sulle prime dubitai di qualche tranello, e voleva informarne la P. S., ma avendo poi riflesso che lo zio poteva trovarsi realmente in pericolo, presi dal cassetto mille e duecento lire in tante carte di Banca, e ne consegnai quattrocento al Toppeta mettendomi le altre in tasca. Il mio progetto era questo di tener d’occhio il soccio e di mettermi in un luogo dove egli potesse intervenire prontamente a trovarmi per avere altro denaro se i malfattori non si accontentavano delle lire quattrocento. Presi l’ombrello perché pioveva e seguii il soccio.
Sul viale di S. Francesco a due tiri di fucile dalla porta della città attendeva un uomo vestito con una giacca nera di panno ordinario, con un sacco per uso di raccoglitore di olive sulla testa. Era l’Emidio D’Angelo, che io non avevo mai prima veduto, uomo sui trenta anni, colla barba rasa da qualche giorno, e con una fisionomia che mi richiamò subito quella dei suoi fratelli da me conosciuti.
Io mi tenevo sicuro per l’ora e pel luogo frequentato, ed avevo in animo di spingermi anche più oltre  finchè non avessi trovato delle masserie, e poi arrestarmi. Il D’Angelo si rivolse a noi, e pacatamente chiese se avevo portato quella poca miseria, e se volevo dare il denaro a lui od al soccio. Io non risposi altro che, andiamo. Dalla via rotabile deviò a sinistra verso la contrada Casa Valignani. Le mie speranze furono deluse perché fuori le masserie lungo la strada non si vedeva alcuno, ed io non potevo fermarmi essendo capitato innanzi al D’Angelo. Egli ci ordinò ad un dato punto di prendere per i fossi, ed avendo io fatto qualche difficoltà, estrasse un pugnale ed un revolver minacciandomi se non andavo innanzi, indi perquisì negli abiti tanto me che il soccio, levando all’uno ed all’altro la moneta, del valore di mille e duecento lire. Percorsa tutta la contrada del Teto, e parte del Marzengo, si giunse ad una capanna entro una valle, in luogo deserto, fra le masserie di De Sanctis, la vedova Francia, e di certo Beducci di Loreto. Ne sortì un uomo col fucile spianato verso di noi e D’Angelo gli disse – fermati -; poi l’uno e l’altro, questi codardi, mi spinsero dentro il pagliaio dove stava mio zio legato, senza le calze rosse da canonico, che il secondo malandrino si era indossato. Entrò poi anche il Toppeta perché fuori si bagnava. D’Angelo diede all’altro quattrocento lire e si trattenne il resto. Quindi ci disse – ora parlate voi, e vedete ciò che volete fare, perché qui ci vuole altra moneta. O andate a prenderla subito, o promettete di farcela avere -. Essi volevano dieci mila scudi, poi man mano discesero fino a mille franchi, e noi dovemmo promettere di farglieli consegnare sul largo di S. Francesco dal Toppeta la domenica prossima ventura unitamente a due abiti e quattro camicie, sotto minaccia di essere assassinati anche in casa giacchè essi in città tenevano corrispondenze, e di devastarci i fondi. Fummo lasciati liberi due ore prima mezzogiorno. Noi col soccio salimmo al paese, e quelli rimasero ad osservarci poco discosti dal pagliaio, indi li perdemmo di vista.
Io riconoscerei indubbiamente i grassatori. Il secondo mostrava l’età di 45 anni, aveva la barba sfatta lunga un dito di colore biondo, viso lungo pallido. Era di giusta statura; vestiva una giacca cenerina, e calzoni lunghi dello stesso colore.
Quando andavamo io ed il soccio col D’Angelo abbiamo incontrato sulla strada rotabile due contadini cognominati Orlando che mio zio sa meglio indicare. Non abbiamo fatto altri incontri.
Lo zio mi ha raccontato che la sera del quattro mentre si ritirava dalla masseria della Torre con Domenico Antonioli e con un di costui ragazzo, i due malfattori che venivano dal colle ove è situata la masseria di Giuseppe Laguardia gli si avvicinarono fingendo di dover discorrere e dissero agli altri due di andare innanzi, come quelli fecero senza sospetto. Come furono soli l’obbligarono a seguirli giù per le contrade Casa Valignani, e con sevizie lo condussero fino alla capanna, dove la mattina gli fecero scrivere una lettera, quella stessa che mi fu recapitata dal Toppeta. Strada facendo sono stati veduti da Rossi detto Camilluccio che stava seminando insieme con tre altri, ed il D’Angelo entrato in una masseria a prendere del pane ed un fucile. Credo che l’occorrente per scrivere lo portasse mio zio. Un lume per vederci se lo procurarono i malfattori.
Per due giorni abbiamo taciuto sotto l’impressione delle minacce avute, ma questa mattina ho fatto coraggio ed ho palesato la cosa ai Reali Carabinieri”.

Ricostruzione dell'itinerario fatto percorrere al Canonico la sera del sequestro (cartina allegata agli atti del processo)Il giorno successivo, l’otto novembre 1873, davanti al Pretore di Penne comparve Simone Perrotti di Massimantonio, di anni 69, Canonico, proprietario di Penne, vittima del sequestro, il quale rappresentò quanto segue:
“Il giorno 4 novembre, nel pomeriggio, mi sono recato nel mio podere della Torre nella contrada Costacomacchio per assistere ai lavori di raccoglitura delle olive, e là, per la prima volta, ho saputo dal soccio Zaccaria Sangiorgio che si aggiravano nei d’intorni degli evasi dal carcere, tra cui Emidio D’Angelo di Penne. Io non mi allarmai di questa notizia. Verso le ore 17 facevo ritorno a Penne, dapprima solo, poi con Domenico Antonioli e un suo ragazzo che partendo sulla strada nuova da una vicina loro campagnola, mi si associarono.
Avevo fatto con loro una trentina di passi, ed eravamo giunti ad un risvolto della strada quando dal Colle ove è la masseria di Giuseppe Laguardia, distante da Penne circa un chilometro, calavano a corsa due contadini i quali fattimisi attorno dissero all’Antonioli di allontanarsi, come fece.
Un d’essi mi domandò se non lo riconoscevo, ed io guardatolo bene risposi: tu sei Cuculetto. Così si soprannoma l’Emilio D’Angelo. Ciò detto mi presero le braccia e mi spinsero giù per la campagna scoscesa alla nostra destra nella contrada Valignani, ove mi appuntarono i pugnali al petto intimandomi di tacere e di seguirli. Io vidi tre persone che rincalzavano il grano seminato in un fondo di Giovanni Assergio a distanza di una trentina di passi, e cercai di dirigermi verso per chiedere un soccorso, ma i due malfattori mi fecero andare alla parte opposta. Ritengo però per certo che i tre contadini si siano accorti di noi.
Si camminò giù per fossi evitando le masserie, e percorse le contrade di Valignani e Teto si giunse a Fonte d’Antò sul fondo di D. Gennaro Pompei.
Qui si fece sosta sotto una quercia. Il compagno del D’Angelo rimase a custodirmi, e quegli si diresse verso la contrada Marzengo, donde tornò in meno di una mezz’ora, e diede un fischio per segnale. Noi ci incamminammo verso il punto dove egli ci attendeva sotto la strada di Picciano quasi in linea retta, però lo sconosciuto malandrino mi fece fermare perché in quel momento passava sulla strada una persona che io vidi al chiarore della luna camminare in direzione di Picciano. Raggiunto il D’Angelo lo vidi armato di fucile e provvisto di una posta di pane di granone che divise col compagno.
Attraversammo la strada e scendemmo pel Marzengo lungo un fosso finchè si giunse ad un ponticello al di là del quale sta una piccola capanna ove ci siamo ricoverati.
Qui il D'Angelo mi legò le mani sul dorso e con minacce replicate di morte ambedue mi chiesero del denaro. Volevano nientemeno che diecimila scudi.
Verso la mezzanotte, dopo un breve sonno il D’Angelo si svegliò e partì dalla capanna dicendo che andava a prendere un lume per farmi scrivere una lettera a mio nipote onde mandasse il denaro. Vidi che appena uscito piegò a sinistra della strada che porta a Loreto, ma lo perdei subito d’occhio, perché io stavo in fondo alla capanna. Stette fuori per più di un quarto d’ora e venne con un lume ad olio cosidetto a mano costrutto di ferro con catenella pure di ferro, e coverchio dello stesso metallo, tutto nero pel lungo uso, e lordo.
Lo stesso D’Angelo prese quel lume che conteneva poco olio, e che dava luce a stento. Per meglio vederci aveva alzato il coperchio, il quale rientrava ad ogni tratto per qualche vizio della cerniera od altro che lo teneva saldo al manico.
Mi fu dato dal D’Angelo un calamaio di osso nero contenente la penna nel coverchio, ed un foglio di carta, sul quale sotto sua dettatura scrissi a mio nipote Massimantonio Perrotti, che mi trovavo in potere di otto persone, e che se non mi voleva loro vittima mandasse subito diecimila scudi; al quale uopo gli mandavo le chiavi.
Queste stavano già in potere dei due malfattori che me le avevano tolte fin dai primi momenti. Circa due ore prima giorno il D’Angelo partì prendendo ancora a mano manca onde recare la lettera.
Io rimasi col forestiero, il quale non fidandosi di me che ero stato sciolto dal suo compagno, mi legò nuovamente le mani sul petto con una cinta di pelle.
La capanna era aperta. Al far del giorno il mio custode prese alcune canne colla paglia dei pomidoro che stavano a terra sull’entrata, e le appoggiò in guisa all’apertura da chiuderla, lasciando tuttavia tra canna e canna degli spazi larghi quattro dita e più, per i quali entrava la luce. Si mise poi immediatamente dietro le canne dentro la capanna col fucile alla mano come se si tenesse pronto a farne uso.
Impaurito come ero dalle minacce non posi attenzione alle qualità di quest’arma. Certo però era un fucile non da guerra, ma alla paesana piuttosto rozzo di lavoro, e non molto lungo.
Da una mezz’ora e più di giorno una donna che vidi soltanto a tergo passò sul ponticello avanti la capanna, e fece ritorno circa un’ora dopo frettolosa perché pioveva, senza guardare la capanna. Ho veduto altresì che alla donna era associato un giovane contadino senza barba dal viso ovale e colorito, che riconoscerei, il quale si fermò sotto il ponticello nel fosso a tagliare un mazzo di vimini dai salici. Non era più distante da noi che cinque o sei passi, e ci deve aver veduti perché più volte il suo occhio si volgeva alla capanna; però potrei anche ingannarmi, perché a dir vero il suo contegno era naturale e non sospetto.
Finchè egli rimase, cioè per oltre un quarto d’ora, il malandrino stette quieto, né mi permise che io facessi movimenti o rumori.
Verso le 9 e mezza a. m., giunsero finalmente sotto l’acqua che cadeva abbondante, il D’Angelo, il mio nipote Massimantonio, ed il mio soccio Domenico Toppeta. Il mio custode atterrate le canne sortì col fucile puntato, e con il calcio spinse mio nipote nella capanna, e ne entrò anche il D’Angelo. Costui diceva di non essere persuaso che la somma di cui per strada aveva spogliato mio nipote e il soccio fosse di lire mille e duecento. Numerò il pacchetto delle quattrocento lire levate al soccio, e l’altro pacchetto lo ripassò senza contare direttamente la moneta. Le quattrocento lire le diede al compagno, e si trattenne il resto. Ma non erano contenti né l’uno né l’altro, e reclamarono altro denaro. Dai diecimila scudi calarono le pretese fino a lire quattromila che dovemmo promettere di pagare parte pel giorno nove e parte nel giorno sedici andante mese, facendoglieli consegnare dal soccio Domenico Toppeta, unitamente a due paia di calzoni, due paia di camicie, scarpe ed altro. Non ricorre il dire che pel caso di inadempienza fummo minacciati di morte. Dietro questi accordi fummo posti in libertà verso le dieci e mezzo. Infatti dalla pagliaia tutti insieme, piegando a sinistra ci portammo sulla strada di Loreto. Qui ci siamo divisi. Io, il nipote ed il soccio andammo a raggiungere la strada che porta da Picciano a Penne per le contrade fonte d’Antò e S. Vittoria, quegli mi parve piegassero verso Loreto. Non mi ricordo se per istrada abbiamo incontrato qualcheduno. Per timore di qualche vendetta ho taciuto per due giorni. Poi fatto animo abbiamo rivelato la cosa la mattina di ieri ai Reali Carabinieri.
Non ebbi percosse da quei due malfattori, ma insulti e minacce continue a mano armata. Il cappello da prete me lo fecero in mille pezzi e le calze rosse da canonico, e la camiciola di lana bianca mi furono tolte dal forestiero per vestirsene esso.
Lo sconosciuto malfattore non palesò il suo essere. Parlava un linguaggio forestiero, ma della bassa Italia. Era di media età di giusta statura e corporatura, di viso piuttosto rosso pallido, con poca barba castagna.
Io mi fiderei benissimo di riconoscere il lume di cui vi ho parlato, sul quale ho specialmente fermata la mia attenzione, come se di un elemento di prova; non così del fucile.
Io non ho sospetti di connivenza a carico del soccio della Torre Zaccaria Sangiorgio, né del Domenico Antonioli, e tanto meno del Domenico Toppeta, il quale obbedì senza sapere il contenuto della lettera recata a mio nipote, e senza conoscere il D’Angelo e le sue intenzioni. Il poveretto corse anzi pericolo. Il D'Angelo quando fummo lasciati in libertà, gli diede pel suo incomodo due lire, che il Toppeta lungo la strada mi restituì. Ho invece qualche dubbio su Pasquale Miseri, che io per dir vero non riconobbi, ma che credo fosse uno fra tre persone che lavoravano in un fondo del suo padre adottivo Nicola Rossi detto Camilluccio, e che non mi si rivolsero, benché con molto strepito io e i due malfattori siamo passati vicino a loro una ventina di passi, quando dalla strada nuova fui spinto giù per la contrada Valignani. Il Miseri è un assai cattivo soggetto.
Al ritorno verso Penne mio nipote ed il Toppeta giunti sulla strada nuova proseguirono soli. Io che ero senza calze e senza cappello sono entrato nella masseria del mio soccio Giovanni Tontodimamma ad aspettare che mi rimandassero da casa cappello e calze. Al Tontodimamma ho detto nulla di quanto mi era accaduto. Il cappello me lo avevano fatto a pezzi.
La somma da me data constava di due biglietti da lire cento, due da venticinque, quindici da dieci tutti nuovi della Banca Nazionale. Il resto era in biglietti da dieci lire della Banca di Napoli, e di lire cinque e lire due parte del Banco di Napoli e parte della Banca Nazionale. Non faccia meraviglia che io posseggasi quella somma, che è anzi piccola scorta pel mio andamento di famiglia, ricavo della vendita dei miei prodotti, ed interessi di capitali.

Questo è il biglietto che scrissi di mio pugno sotto dettatura del D’Angelo a mio nipote Massimantonio Perrotti”.

Mio nipote
mandatemi dieci mila scudi per-
ché mi trovo nelle mani di otto per-
sone per cui appena che ricevete il più
possibile perché altrimenti dopo
il mio vittimo ne ricevete  anche
voi lo stesso e vi prego di non perdere
tanto tempo e di badare di non fare
osservazione perché ne correte
il peggio anche voi e vi prego con se-
gretezza di adempire sull’istante.
Per segnale ecco le chiavi, e per l’amore
di Dio consegnate tutto  sull’istante
Sono il vostro zio Simone Perrotti.

 

Lo stesso giorno della denuncia, il Pretore di Penne volle effettuare un sopralluogo nelle località attraversate dall’arciprete durante il sequestro. In quella occasione venne redatto il seguente verbale:
“L’anno 1800settantatre il giorno otto Novembre in tenimento di Penne alle Contrade Casavalignani, Fonte d’Andò, e Marzengo.
Noi Carlo Quadrio Pretore del Mandamento di Penne assistiti dal sottoscritto Vicecancelliere.
Ci siamo recati nelle suddette contrade insieme ai querelanti Simone e Massimantonio Perrotti, ed al testimonio Domenico Toppeta per avere dai medesimi quelle indicazioni di località che possono essere utili all’accertamento della prova generica e specifica.
Percorrendo dapprima la strada rotabile che da Penne guida a Montesilvano, siamo giunti ad un risvolto della strada medesima sotto il colle ove è la masseria di Giuseppe Laguardia, distante dalla città circa un chilometro; ed ivi il Signor Simone Perrotti ci ha dichiarato essere quello il punto ove fu avvicinato dai due malfattori, i quali calarono dal colle. Poco più in là ci fece vedere su altro colle la sua masseria della Torre, ed il viottolo dal quale sortiva col figlio il testimonio Domenico Antonioli unitosi con lui fino al punto d’incontro coi suddetti due malfattori. Dalla strada che corre sull’altipiano ci ha indicato una parte del cammino che fu costretto di fare dai ripetuti malandrini nelle sottostanti contrade Valignani e Teto, attraverso campi e valloni, tenendosi possibilmente discosti da case abitate.
Essendo quel cammino troppo disastroso a seguirsi, abbiamo presa la strada per Picciano, la quale guida più comodamente alle altre contrade oltre il Teto percorsa dal ricattato, cioè Fonte d’Antò e Marzengo.
Alla contrada Fonte d’Antò lungi centocinquanta passi circa dalla masseria del signor Gennaro Pompei, ci ha il Simone Perrotti, indicato il punto di fermata sotto una ripa piantata di querce, ove Emidio D’Angelo si staccò da lui e dal suo compagno dirigendosi verso il Marzengo, donde fece ritorno con un pane di grano turco, e con un fucile. Ci ha ancora indicato il punto della vicina strada di Picciano, dove vide fra l’ombra passare una persona diretta verso quel paese. Di poi attraversata la ripetuta via, ripetendo il cammino fatto coi malfattori, ci ha guidati nel Marzengo, lungo il fosso che lo percorre, fino ad un ponticello del piano, al di là del quale, nell’orto di Vincenzo Ruscitti esserci una piccola capanna con apertura verso il declivio del fosso. E’ quella la capanna ove fu consumato il ricatto.
Appesa al pagliaio esternamente si trovò una vecchia saccuta dell’oliva. Per terra, sul davanti, abbiamo rinvenuto un pezzo di pelle nera che il Simone Perrotti disse esser parte della fodera del suo cappello da prete, fattogli a pezzi dal compagno del D’Angelo.
Davanti l’apertura scorgesi atterrato un mazzo di canne vecchie coverto colla paglia di pomodoro cui han fornito di sostegno.
Sotto il ponte dentro il fosso, a distanza dall’apertura della capanna di non più che cinque o sei passi, sorgono diverse piante di salici, i cui ramoscelli sono stati tagliati evidentemente da pochi giorni. Sono quelli gli alberi da cui il Perrotti, stando nella capanna, vide un contadino raccogliere un mazzo di vimini.
Partendo dalla capanna, e piegando a sinistra, si raggiunge la strada che da quella di Picciano guida a Loreto sotto il Colle della Stella.
Il piano del Marzengo è circondato, o meglio fiancheggiato da colli. Su quello denominato della Stella sorge la masseria di Antonio, Pietro, Salvatore e Pasquale padre e figli Zicola, che confina colla strada di Picciano per una viottola, e per altro sentiero con quella di Loreto.
Sul colle di fronte stanno le altre masserie di Vincenzo Ruscitti e di Giovanni ed Antonio padre e figlio D’Addazio.
Tutte e tre queste masserie sono distanti dalla capanna circa sette, dieci minuti di cammino, e dominano così il piano da vedere la capanna distintamente invecechè posta in campagna sola.
Un’altra masseria è situata nel piano fra un oliveto. Sta abitata da Raffaele Mancini e sua moglie, e dista dalla capanna non più che cento cinquanta metri, però non la tiene in vista come le prime.
Si è praticato in tutte una perquisizione come dai relativi verbali.
Del che si è redatto il presente verbale sottoscritto da Noi, dal Vicecancelliere, e dai Perrotti, e non dal Toppeta perché analfabeta”.

Al fine di scoprire eventuali complici, furono effettuate le perquisizioni delle masserie della zona con la scorta dei Reali Carabinieri e del Delegato di Pubblica Sicurezza. In presenza del Canonico Perrotti, il Pretore di Penne visitò le case ubicate in quell’ambito e vennero, in concomitanza, redatti i seguenti verbali:

“Nella masseria di Raffaele Marini è risultato che in casa non vi sono armi né denari, né pane di granone. In cucina si trova un lume di ferro a mano senza coverchio.
Osservato il lume anzidetto dal querelante Perrotti, ha detto non essere quello adoperato dai malandrini”.

“Nella masseria di Vincenzo Ruscitti è risultato che in casa non ci sono né armi, né denaro. L’arcone contiene del pane di granturco. Nella cucina vi è un lume di ferro a mano senza coverchio. Il querelante dopo di avere osservato quel lume ha detto non essere il lume adoperato dai malfattori”.

“Nella masseria di Giovanni ed Antonio padre e figlio D’Addazio è risultato che i D’Addazio non tenevano armi né denaro; che nell’arcone vi era del pane e della pizza di granturco, ed in cucina si trovavano un lume ad olio di latta con coverchio, ed altro di ferro senza coverchio.
Il querelante dopo di aver osservato quei lumi ha detto di non riconoscere quello usato dai malfattori”.

“Nella masseria di Antonio e figli Zicola è risultato che ciascuno dei figli Zicola ed il loro padre hanno abitazione separata. In quella di Pietro si è rinvenuto un fucile da caccia ad una canna carico, un lume senza coverchio, e senza provvista di generi alimentari.
In quella del padre, e del figlio Salvatore nulla di rimarchevole.
In quella di Pasquale, il Canonico Perrotti appena vide il lume di ferro con coverchio appeso in cucina, ci dichiarò che quello era il lume adoperato dai malfattori, e ci fece osservare come il coverchio legato al manico con un pezzo di spago non si reggeva quando era alzato.
Abbiamo quivi rinvenuto in un cassone una salma e mezzo di grano vecchio ed in altro due tomoli di farina di grano. Nell’area vi era un grosso catino di pasta di frumento con lievito. Si è pure rinvenuta una baionetta militare.
Fatto subito arrestare il Pasquale Zicola, costui che durante la perquisizione aveva tenuto un contegno serio ma sconcertato, si lasciò legare, senza neppure chiedere il perché dell’ordinato arresto. Egual contegno tennero il padre ed i fratelli. Nelle tasche gli si è rinvenuto un portafogli contenente una piastra e ventuno lire e cinquanta centesimi in carta.
Il Perrotti disse che il fucile sequestrato a Pietro Zicola non era quello di cui erano armati i malfattori”.

I Reali Carabinieri di Penne redassero il seguente verbale d’arresto che rimisero al Pretore del Mandamento:
“Mi onoro di trasmettere alla S.V. un atto verbale d’arresto dei nominati Zicola Pasquale e D’Addazio Antonio sospetti complici del fatto a carico del Sacerdote Sig. Simone Perrotti di qui, avvenuto la sera del 4 andante con estorsione al medesimo di Lire 1.200”.

Una volta arrestato, Pasquale Zicola venne prontamente interrogato dal Pretore, al quale rispose:
“Sono Pasquale Zicola, di Antonio, di anni 30, contadino ammogliato con Grazia Orsini, di Penne, domiciliato alla contrada Marzengo, proprietario di circa un mezzetto di terra, ho fatto il militare, e non sono stato mai carcerato né processato.
Venni arrestato dai Reali Carabinieri in casa mia immediatamente dopo la perquisizione da lei praticatami, e non so, né immagino il motivo.
Non conosco il nominatomi Emidio D’Angelo detto Cuculo, né la sua famiglia, ad eccezione del padre di nome Tommaso; e di questi giorni nessuno è venuto a casa mia nella contrada del Marzengo, né ho visto aggirarsi in luogo persone sconosciute o sospette con armi o senza. L’ultimo giorno che pioveva, vale a dire martedì mi sono alzato da letto a mezz’ora di giorno e sono rimasto in casa a rimettere la paglia ad una sedia, sortendone un pel momento circa un’ora prima di mezzogiorno a prendere un poco di foraggio per le bestie. Se pertanto nel Marzengo ci fosse stato un andare e venire di gente io non potevo vederla. La sera innanzi mi ero coricato alle ventiquattro ore, dopo aver lavorato nelle terre di Vincenzo Ruscitti lungo il fosso ove tiene un piccolo orto. Lo si scorge benissimo dalla mia abitazione posta sul colle, da perché il pagliaio sta in una campagna rasa, distante dalla detta casa quattro o cinquecento passi. Anche là non ho visto alcuno nei giorni quattro e cinque”.
Mostratogli il lume a mano sequestrato in sua casa e domandato risponde.
“Questo lume è mio e lo possiedo da tanto tempo. Non l’ho prestato mai ad alcuno”
Mostratogli il fucile e domandato, risponde.
“Questo fucile appartiene alla mia famiglia paterna, ed è di uso comune mio e dei miei fratelli da me separati di economia. E’ carico, ma è un pezzo che non l’adoperiamo”.
Mostratogli la saccuta dell’oliva rinvenuta appesa alla pagliaia di Vincenzo Ruscitti, e domandato risponde.
“Non è mia, né so a chi appartenga”
Domandato risponde.
“Il grano che tengo in casa, circa una salma e mezza è dell’anno passato prodotto sui miei fondi. I due tomoli di farina di grano sono dello stesso frumento dell’anno scorso e l’ho fatto macinare al molino Delle Monache il giorno di Lunedì tre andante. Il tutto è produzione dei miei fondi. In casa poco conservo perché tengo soltanto la moglie e due bambini. Il campo non l’ho ancora seminato. Granone non ne produco e non ne consumo. Il denaro che mi fu sequestrato nella somma di lire ventisei e cent. 60 è, quanto a lire dieci, il frutto dei miei risparmi, ed il resto lo ricavai dalla vendita fatta di un maiale sul mercato di Penne il primo di questo mese. Lo comperò un tal Francuccio legnaiolo di Loreto, che sta vicino al macello di Catracchia, e me lo pagò cinque ducati in carta di cui ho speso due lire e quaranta centesimi per la macinazione del grano”.
Dettogli che viene imputato di aver prestato aiuto ad Emidio D’Angelo ed altro malfattore in un ricatto commesso nella contrada Marzengo alla capanna di Vincenzo Ruscitti il giorno quattro e cinque andante mese a danno del Sacerdote Simone Perrotti, così risponde.
“Io sto dentro la mia casa e non so far male a nessuno. Non ho dato alcun aiuto a malfattori e mi riesce nuovo l’accaduto.
Non ho prove da assegnare a discolpa”.

Dopo Pasquale Zicola, il Pretore interrogò l’altro arrestato il quale rispose:
“Sono Antonio D’Addazio di Giovanni, di anni 25, contadino di Penne domiciliato alla contrada Marzengo, impossidente, illetterato e non mai processato né incarcerato. Sono sordo.
Sono stato arrestato senza aver fatto alcun male. Ho già detto nel mio esame che la mattina del giorno cinque di questo mese sono andato a tagliare un mazzo di vimini giù al fosso presso la capanna di Vincenzo Ruscitti, ma assicuro la giustizia che non vi ho visto alcuno, e che io non ho mai tenuto mano a malfattori. Mi riesce nuovo il fatto di cui mi parlate. Se anche ne fosse corsa la voce, la mia sordità mi impediva di apprenderlo. In casa mia non è venuto alcuno né per pane, né per lume.
Non ho testimoni a discarico ma protesto la mia assoluta innocenza.
Non conosco Emidio D’Angelo”.

L’attività del Pretore di Penne prese ritmi incessanti. Infatti vennero sentite tutte le persone potenzialmente informate sui fatti.
Nell’ordine si ascoltarono i seguenti testimoni, i quali dissero:
“Sono Vincenzo Ruscitti di Zopito, di anni 40, di Loreto Aprutino, qui dimorante, ammogliato con Rosaria Zicola.
La capanna che voi mi indicate qui abbasso nel piano, e che scopresi distintamente, sorge sul fondo che io coltivo. E’ da lunedì che io non ci vado. Il giorno quattro di questo mese, cioè martedì sono stato qui sul colle ad arare, e non ho visto alcun forestiero aggirarsi nel Marzengo.
La mattina del cinque pioveva, e dovetti tralasciare il fondo verso le tredici ore per ritirarmi in casa.
Mia moglie si recò all’orto presso la capanna passando davanti la stessa, per piantarci le rape, e cacciata dall’acqua riparò alla casa quasi contemporaneamente a me.
Prima di ritirarci, Antonio D’Addazio mio vicino che mi aveva promesso di farmi un cesto di canne, passando sotto il terreno dove io lavoravo, mi chiese il permesso, che diedi, di andare giù al fosso a fare un mazzo di vimini per l’orlo del cesto, quello stesso che il D’Addazio mi portò il giorno dopo, e che qui vi presento.
Né mia moglie, né il D’Addazio mi han detto di aver visto persone alla capanna.
In quel giorno essendo rimasto in casa non ho avuto occasione di vedere chi si aggirasse per le campagne. Non conosco Emidio D’Angelo”.

“Sono Rosaria Zicola, di Antonio, di anni 40, contadina di Penne, moglie di Vincenzo Ruscitti.
La mattina del cinque andante son calata qui nel piano a piantare delle rape nell’orto. Io ho dovuto passare avanti la capanna situata lungo il fosso. Pioveva e tenevo un panno in testa per coprirmi. Avevo premura sia nell’andare che nel ritorno ed era per questo che non ho badato alla capanna, la quale stava come al solito chiusa. Vicino alla detta capanna c’era Antonio D’Addazio che coglieva vimini dai salici dentro il fosso per un canestro che doveva fare per casa mia. Non ho visto alcuna altro, e nell’orto non son tornata più da quel giorno. Ignoro che nel Marzengo si aggirassero persone conosciute sospette”.

“Sono Francesca di Matteo di Antonio, di anni 43, moglie di Giovanni D’Addazio contadina di Penne.
Di questi giorni io non son mai sortita di casa perché soffro mal di petto, e così non ho avuto occasione di vedere chi si aggirasse nel Marzengo, né da altri ho saputo. In casa mia non è venuto alcuno”.

“Sono Antonio D’Addazio di Giovanni, d’anni 25, celibe convivente col padre / E’ sordo, e dietro domanda direttagli a mezzo dei suoi familiari, risponde/.
La mattina del cinque andante mese col permesso di Vincenzo Ruscitti sono andato al fosso sulle sue terre vicino alla capanna a tagliare alcuni vimini per orlare un cesto che fabbricavo per lui, e che gli consegnai all’indomani. La capanna era chiusa colle canne ed io non ci ho visto persone”.

“Sono Domenico Ionnicchi di Salvatore d’anni 30, contadino di Loreto domiciliato in questa masseria di Pasquale del Bono.
Per la vicina strada di Picciano passano persone continuamente. Quelle che voi mi descrivete non parmi d’averle vedute. Emidio D’Angelo non lo conosco”.

“Sono Massimonicola Nardicchia fu Beradino di Penne, d’anni 60, contadino.
Emidio D’Angelo detto Cuculo lo conosco, e sento dire che va fuggiasco per queste contrade, ma io non l’ho mai veduto”.

“Sono Sabatino Ricci fu Nicola, di anni 52, contadino di Penne dimorante alla masseria del Signor Gennaro Pompei.
Sono diversi giorni che Emidio D’Angelo con uno sconosciuto si aggira nella contrada Fonte d’Antò, ove tengo in affitto la masseria del Signor Pompei. Domenica, due andante mese, verso le ore diciassette, reduce io della messa, li incontrai che si allontanavano dalla detta mia casa. Il D’Angelo mi si fece conoscere dicendo - io son quello che ha ucciso Tenente, e sono fuggito da Gaeta -. Si diressero verso Penne. Mia moglie mi disse che le avevano cercato del pane e si era negata.
Li rividi martedì passate le venti ore. Venivano per la strada da Penne a Picciano, ed erano seguiti da un terzo che portava un fucile, ma che credo che non fosse della loro compagnia continuò mentre essi due discesero a discorrere col Signor Pompei, col dicolui soccio Raffaele D’Angelo e colle raccoglitrici delle olive, poi si diressero verso la Fonte d’Antò.
Ignoro chi fosse quello del fucile, che io vidi da una certa distanza.
Poi non ricordo se fu nello stesso giorno o nel successivo che vennero di nuovo nella masseria circa la calata del sole. Io mi trovavo a lavorare sul fondo ma li vidi. Tornato in casa seppi dalla moglie che aveva fatto richiesta di pane, ed essa non aveva voluto darne. Un’ultima volta li vidi giovedì circa le venti ore discorrere col Pompei, o meglio col Raffaele D’Angelo e colle raccoglitrici.
Altre volte non mi risulta essere mai venuti alla masseria”.

“Sono Adelaide di Giacinto figlia di Angelo, di anni 35, moglie di Sabatino Ricci, contadino di Penne, Soccio di D. Gennaro Pompei.
So che Emidio D’Angelo ed un suo compagno alli quattro di questo mese si son presentati nell’oliveto del mio padrone, e trattenuti a discorrere con lui, con Raffaele D’Angelo, e con le coglitrici. Io non li vidi che il giorno sei, perché passarono sull’aia della masseria circa le venti ore, e chiesero del pane, che fu loro dato da mia cognata Annantonia Ricci. Il sette si coglieva ancora l’oliva, ed il padrone non c’era. Ricomparvero il D’Angelo e l’altro nell’oliveto, e da lungi ho visto che uno era armato di fucile. Non so dire altro”.

“Sono Domenico Toppeta, fu Antonio, di anni 22, contadino di Penne, soccio del Canonico Perrotti alla masseria nel piano fuori la porta di S. Francesco.
La mattina del giorno cinque andante mese, a giorno fatto, e quando già mi ero alzato, bussò alla masseria un contadino che mi diede un foglietto e due chiavi premurandomi a consegnarli subito alla famiglia del mio padrone Simone Perrotti. Io non sapevo chi fosse, però non replicai e feci il richiestomi servizio. Quel contadino disse che mi aspettava colla risposta nel piano di S. Francesco. Siccome pioveva, tenevasi coperta la testa con una vecchia saccuta ad uso dei coglitori di olive.
Nella casa del padrone trovai prima la serva, poi venne D. Massimo Perrotti, ed a lui feci l’ambasciata.
Quegli diede un poco a riflettere, poi venne meco a S. Francesco, ove si abboccò in disparte collo sconosciuto. Tornammo quindi alla casa, e mi fu dato dal Signor Massimo un pacchetto con ordine di consegnarlo a suo zio D. Simone, associandomi al contadino, il quale mi avrebbe condotto dove si trovava.
Ritornati ambedue sul piano S. Francesco, e rimasto io un poco indietro, D. Massimo e lo sconosciuto s’incamminarono per la strada nuova discorrendo. Da quella strada si deviò a sinistra per la contrada Cà Valignani. Ad un certo punto il contadino diede di mano a D. Massimo, e minacciandolo con un lungo stile gli tolse di tasca un pacchetto coverto di carta bianca, indi fece altrettanto con me levandomi il denaro affidatomi da D. Massimo. Noi avanti, ed egli indietro, dovevamo proseguire il viaggio fino a Marzengo, dove si giunse dopo due ore ad una capanna lungo un fosso cavalcato un ponticello. Là un altro contadino che stava dentro accovacciato sortì col fucile puntato verso di noi. La nostra guida gli disse di calmarsi, ed allora uno dopo l’altro fummo fatti entrare nella capanna, dove trovammo il Canonico Simone Perrotti senza calze colla sola testiera del suo cappotto da prete, e colle mani legate con una cinta di pelle. Qui si trattò di altri denari che quei due malandrini esigevano ambedue collo stile alla mano, ed il primo armato anche di revolver. Mi pare che si accordassero per quattrocento lire da darsi oggi, e per altra somma che non intesi da pagarsi più tardi. La nostra guida in presenza di tutti contò, o meglio verificò il denaro, a me tolto, dichiarando all’ultimo che non trovava esatta la somma di lire quattrocento. Del pacchetto levato a D. Massimo si discorse per dire che doveva contenere lire settecento. All’ultimo, minacciati che se parlavamo ci avrebbero uccisi, fummo posti in libertà. Io ebbi a titolo di regalo  dai malandrini due lire, che presi e spontaneamente consegnai al padrone. Per strada i Perrotti mi dissero che il malfattore dai cui mi furono recate le chiavi e la lettera era Emidio D’Angelo detto Cuculo. La nostra liberazione ebbe luogo circa le sedici ore. Sia nell’andare che nel tornare dalla capanna non ho visto persone. Siccome pioveva i contadini stavano ritirati in casa.
Il malfattore che si trovava nella capanna era uomo di statura giusta, di media età, con barba sfolta e corta, cogli occhi di color chiaro. Credo che lo riconoscerei rivedendolo.
Il fucile che portava era una carabina con la canna arrugginita qua e là, senza baionetta. Non ho visto che nella capanna ci fosse un lume.
Il fucile che io vidi nella capanna era ben diverso da quello sequestrato in casa di Pietro Zicola”.

“Sono Gennaro Pompei fu Francesco, di anni 49, proprietario di Penne.
Il giorno quattro di questo mese tra le venti e le ventidue ore due persone vestite malamente da contadino, che venivano per la strada sopra il mio fondo in contrada Fonte d’Antò, diretti in apparenza verso Picciano, calarono nel detto mio fondo armati ambedue di bastoni. Uno di essi mi salutò, e mi si diede a conoscere per Emido D’Angelo detto Cuculo, mio compaesano. Siccome sapevo che egli era stato condannato per omicidio feci le meraviglie di ricordarlo. Esso a mia domanda disse - siamo fuggiti - colla quale locuzione plurale accennava evidentemente al suo compagno. Costui stette sempre in silenzio. Era un uomo sui trentacinque anni, di statura giusta, con barba sfolta rasata da ben molti giorni. Dopo di me il D’Angelo salutò suo cugino Raffaele D’Angelo, mio soccio, e scostatosi anche da lui col compagno disse qualche parola alle coglitrici delle olive, indi presero ambedue la direzione della Fonte d’Antò, e né più li vidi.
Con loro non andava alcun altro che io abbia veduto”.

“Sono Mariadomenica Scarfagna nata Sergiacomo, fu Massimantonio, di anni 67, contadina di Penne.
Il giorno quattro di questo mese sono stata a cogliere le olive alla masseria di D. Gennaro Pompei, e verso le venti o le ventun’ ore ho visto attraversare il fondo e dirigersi verso la Fonte d’Antò due contadini muniti di bastoni, i quali salutarono il Pompei, ed il suo soccio Raffaele D’Angelo detto Cuculo, e scambiarono anche qualche parola colle mie compagne. Mi venne poi detto che uno di essi era Emidio D’Angelo”.

“Sono Lucia Evangelista fu Sebastiano, di anni 73, contadina di Penne.
Lunedì e martedì tre e quattro andante mese sono stata a cogliere le olive a Fonte d’Antò nell’oliveto di D. Gennaro Pompei. Il lunedì, passato mezzogiorno, si presentarono sul fondo Emidio D’Angelo detto Cuculo, ed un altro che non conosco, e stettero più di un’ora a discorrere col Signor Pompei, col suo soccio Raffaele D’Angelo, e colle giornaliere. Il martedì poi ritornarono passate le venti ore e di nuovo si trattennero col Pompei e gli altri a discorrere e ridere. Il D’Angelo vestiva di semplice più un calzone e di sotto la camicia una maglia od altro di color rosso, dichiarando che così essi andavano vestiti, con che voleva dire che quello era l’abito dei condannati. Ciascun d’essi portava un bastone.
Ignoro dove siansi recati partendo di là. Il secondo giorno presero la direzione della Fonte.
La soccia del Pompei Adelaide di Giacinto ieri si lagnava di aver dovuto in uno dei detti due giorni fornire al D’Angelo una posta di pane di granone”.

“Sono Carmela Cantagallo di Massimantonio, di anni 22, contadina di Penne.
Martedì e giovedì della scorsa settimana trovandomi a cogliere le olive nel fondo di D. Gennaro Pompei alla contrada Fonte d’Antò vi ho visto nel pomeriggio trattenersi un quarto d’ora per volta a discorrere col padrone e col suo soccio Raffaele D’Angelo due contadini a me sconosciuti, uno dei quali mi fu detto essere Emidio D’Angelo fuggito dal carcere di Gaeta. Si diressero poi verso la Fonte d’Antò. Con loro non andava alcun altro”.

“Sono Mariadomenica de Simone, fu Domenico, di anni 19, contadina di Penne.
 D. Gennaro Pompei cominciò a raccogliere le olive del suo fondo in contrada Fonte d’Antò il giorno di martedì quattro andante mese. Io fui una delle coglitrici, e prestai l’opera mia fino a ieri, nell’intervallo del solo mercoledì, nel qual giorno è piovuto.
Verso le venti ore e mezza del martedì comparvero sul fondo due contadini che si fermarono a discorrere un quarto d’ora con D. Gennaro Pompei e col suo soccio Raffaele D’Angelo, poi si avviarono verso la Fonte d’Antò salutando nel passare le raccoglitrici. Io in uno di essi ravvisai Emidio D’Angelo, che io conoscevo già prima che andasse in carcere.
Il giovedì li rividi di nuovo venir sul fondo dalla Fonte d’Antò, e trattenersi a discorrere un quarto d’ora col padrone. Ritornarono per la stessa strada della fonte.
Non mi sono accorta che con loro andasse una terza persona, la quale sia rimasta in disparte”.

“Sono Carolina de Simone, fu Domenico, di anni 31, contadina di Penne.
Martedì giorno quattro di questo mese passate le venti ore, stando a cogliere le olive sul fondo del Signor Pompei vi ho visto passare diretto alla fonte d’Antò, Emilio D’Angelo detto Cuculo con un altro che non conosco. Nei giorni successivi fino al venerdì sono rimasta a casa”.

“Sono Raffaele Marini, fu Giuseppe di anni 40, contadino di Penne.
Io abito una casetta nel Marzengo fra un oliveto di proprietà del Signore Domenico Penna di Montepagano, distante un centocinquanta passi dalla capanna di cui mi parlate, sita al ponticello del fosso nell’orto di Vincenzo Ruscitti. Però nei giorni quattro e cinque di questo mese non ho visto presso quella capanna, o in altro luogo del Marzengo aggirarsi delle persone insolitamente; né contadini, né borghesi, e né preti. Conosco Tommaso D’Angelo detto Cuculo che mi è lontano parente ma non così i suoi figli.
Dato che il giorno cinque pioveva, e mi sentivo poco bene, sono rimasto a letto; e noto ancora che dalla casa mia per le piante che la circondano non si può scorgere la capanna del Ruscitti”.

“Sono Pasquale Miseri, proietto allevato da Nicola Rossi detto Camilluccio, di anni 23, contadino di Penne.
Conosco Emidio D’Angelo prima che fosse condannato. Domenica giorno due di questo mese nel passare per la strada S. Francesco trovai seduto al muretto fuori la porta di città un contadino che domandatomi chi fossi chiese che gli pagassi una bottiglia di vino. Io alquanto ubriaco dapprima mi scusai, e poscia ho consentito. Giunti in città alla Crocevia, dove era il porchettaro Ciaciò, quell’uomo che io non sapevo chi fosse, mi lusingò a comperare un po’ di carne da accompagnarsi col vino. Io dissi allora - ma tu chi sei? - ed egli - sono Emidio D’Angelo figlio di Cuculo - E come sei qui se ti hanno condannato a venti anni di galera? – rispose - fui aggraziato -. Ciò sentito non ebbi difficoltà di comperare la porchetta dal Ciaciò ed un po’ di pane da Domenico Cristini.
Bevemmo quindi una bottiglia e mangiammo alla cantina di Raffaele de Fabritiis, dove eravamo soli. All’infine di là il D’Angelo si diede a conoscere il de Fabritiis, e disse che era fuggito da Gaeta. Ciò inteso io lo lasciai per non compromettermi dopo aver fatto pochi passi con lui, e non gli ho più parlato.
Il quattro di questo mese stavo a lavorare in campagna nella contrada Valignani con Liberato Rossi e Giovanni Russo, ed eran circa le ventiquattro ore quando vedemmo passare a trenta passi circa da noi il Canonico Perrotti con due contadini, che non conobbi. Io non ci feci caso. Ho saputo giorni dopo che il detto Canonico era stato ricattato da quei due contadini, e che uno d’essi era Emidio D’Angelo. Il Canonico era senza cappello, e taceva, e camminava senza opporre resistenza. Però la cosa mi parve strana si per l’ora e si perché il prete ed i contadini camminavano fuori strada.
Io ho negato quanto sopra al Delegato di P.S. per timore di qualche vendetta del D’Angelo”.

“Sono Raffaele de Fabritiis, fu Antonio, di anni 50 proprietario e venditore di vino al minuto di Penne.
Il giorno due di questo mese a mezz’ora di notte nel sortire dal trappeto vidi Pasquale Miseri detto Camilluccio, allevato da Nicola Rossi, che entrava nella mia cantina con pane e carne di porchetta. Me ne offerse, ma io ringraziai e tirai dritto. Poco dopo ritornando al trappeto ho visto sortire dalla cantina, dove non erano altri avventori, il Miseri, ed un contadino di mezza età, il quale mi chiese se non lo conoscevo, e dettomi che era Emidio D’Angelo, mi abbracciò. Alla meraviglia che io feci di ricordarlo disse che era fuggito dal carcere di Gaeta; ed avendogli io osservato che troppo ordiva di girare pel paese, rispose che si era pure incontrato coi Reali Carabinieri e li aveva salutati. Detto questo si allontanò entrando in paese. Il Miseri taceva”.

“Sono Domenico Antonioli, fu Nicola, di anni 34, contadino di Penne.
Il giorno quattro di questo mese fui a lavorare in mia vigna posta nel piano tra le masserie di D. Simone Perrotti alla Torre, e di Giuseppe Laguardia. Circa le ventiquattro ore, quando stavo per lasciare il lavoro vidi passarmi vicino sulle maggesi preparate per la semina due contadini sconosciuti. Quando io loro osservato che non era conveniente calpestare le maggesi mi si fecero presso quegli in atto minaccioso talchè mi posi in guardia. Allora uno di essi mi disse che non avevano nessuna intenzione di fare del male, e tornandosene ambedue si portarono sopra la strada nuova ove è un gruppo di piccole querce.
Io col ragazzo che portava un fascio di frumento, mi posi subito dopo in cammino verso Penne, ed allo sbocco della campagna sulla strada nuova m’incontrai con D. Simone Perrotti, che cammin facendo mi parlava di cose indifferenti, e mi offriva una presa di tabacco, allorchè calarono dal gruppo delle querce i due sconosciuti, i quali attorniato il Canonico dissero a me di andarmene perché dovevano fargli una preghiera. Infatti io mi allontanai per convenienza. Intesi il prete che esclamò - chi sei tu Emidiuccio? -. Ma non mi rivolsi, né li vidi più perché sulla strada mi trovai di mezzo a molta gente che tornava dal raccogliere le olive da tutte le parti della campagna.
Io non ho conosciuto che uno di quei due potesse essere il mio compaesano Emidio D’Angelo, persona che mai ho avuto in pratica”.

“Sono Tommaso Pilone fu Domenicantonio, di anni 57, rivenditore di generi diversi di Penne.
Non so dire se Emidio D’Angelo sia prima presentato nella mia bottega perché non lo conosco. Ci venne un giorno suo cugino Raffaele a comperare dei sigari, uno per se, ed uno pel compagno che aveva seco, altro contadino di media età che meglio non so descrivere”.

“Sono Vincenza d’Onofrio, fu Giustino, di anni 48, venditrice di vino al minuto nella cantina di Raffaele de Fabritiis.
La sera del due andante mese, a mezz’ora di notte, quando la cantina era aperta, venire Pasquale Miseri con un contadino che io non conosco, e che non so descrivere, e fece portare una bottiglia di vino. Il Miseri aveva seco del pane e della porchetta. Mangiarono e bevvero restando pochi minuti. Nell’andarsene il Miseri disse di mettere il vino a suo conto. Sino ad oggi non mi ha pagato”.

“Sono Raffaele d’Aristotile, fu Antonio, di anni 29, mugnaio di Penne, residente nel molino Delle Monache.
Uno dei miei avventori al molino è certo Pasquale di Vituccio, contadino dall’occhio sinistro, senza barba, che abita alla strada tra Penne e Picciano.
Credo che sia abbastanza comodo, perché fa abbastanza spesso macinato di granone, ed in occasione di feste anche di grano. L’ultima volta che venne al molino fu circa dieci giorni dietro, non so bene se prima o dopo tutti i Santi, portò circa un tomolo e mezzo di grano vecchio ed un mezzetto di cicerchia ed un mezzetto di granone, pagandomi in denaro la molitura con circa lire due. Era solo, né io lo vidi mai accompagnato con Emidio D’Angelo che bene conosco”.

“Sono Errico Frattaroli di Achille, d’anni 30, guardaboschi comunale, nato a Farindola e domiciliato a Celiera.
Il ventinove dello scorso Ottobre tornando da Catignano fui assalito da due grassatori, e derubato del fucile, di una giacca e del sacco a pane. Erano all’apparenza contadini mal vestiti di media età, armati di bastone. Del fatto ho dato querela al Pretore di Catignano.
Il fucile era di ferro bianco, con incassatura rozza senza fascetta. Il fucile che mi mostrate, repertato il giorno otto in casa dei fratelli Zicola, non è il mio”.

“Sono Tobia Ricci, fu Nicola, di anni 40, contadino di Penne, domiciliato come soccio nella masseria di Gennaro Pompei, tenimento di Penne.
Mercoledì mattina nel recarmi a Penne dal padrone a prendere il grano per la semina, verso l’alba ho incontrato della gente che non conosco, la quale raccontava che si era sparito il Canonico Perrotti e che suo nipote D. Massimo l’andava cercando. Facendo poi ritorno alla masseria verso le diciassette ore ho incontrato solo il Canonico Perrotti sotto il suo podere della Torre diretto verso Penne. Tal cosa raccontai a mio fratello Sabatino il quale avrà forse frainteso se afferma che io gli abbia detto di aver veduto il D. Massimo Perrotti in cerca dello zio.
Il giorno innanzi Emidio D’Angelo ed un altro che non conosco, erano comparsi nell’oliveto del padrone a discorrere con lui, col soccio Raffaele D’Angelo e colle coglitrici, prendendo poi la direzione di Fonte d’Antò. Li rividi colà nel pomeriggio del giovedì e del venerdì. Con essi non andava alcun altro. In apparenza non portavano che un bastone. Ignoro che si siano parlati anche nella masseria”.

“Sono Giovanni Russo, fu Silvestre, di anni 40, contadino di Penne.
Io non ho veduto nella sera del quattro andante le tre persone di cui mi parlate, sebbene fino a notte sia stato a lavorare con Pasquale Miseri e Liberato Rossi alla contrada Cà Valignani. Non ho visto mai Emidio D’Angelo detto Cuculo nella casa dei detti miei padroni, né so che vi sia stato, e solo o con altri. La notte sto fuori a guardare l’oliva”.

“Sono Liberato Rossi di Nicola, di anni 17, contadino di Penne.
La sera del quattro di questo mese ho lavorato con Pasquale Miseri e Giovanni Russi una mia terra in contrada Valignani. Io non li ho veduti, ma il Miseri mi ha detto che verso le ventiquattro ore erano passate vicino a noi tre persone attraversando i campi, e non le aveva riconosciute”.

“Sono Emidio Pilone, fu Armidoro, di anni 45, industriante di Penne.
Ricordo bene che il giorno due di questo mese non più tardi delle ventitre ore, Pasquale Miseri venne da me a comprare in credenza quindici soldi di porchetta. Era solo. Fino ad oggi non sono stato pagato”.

“Sono Domenico Ridolfi cognominato Cristini fu Salvatore, di anni 57, panettiere di Penne.
Non ricordo di aver veduto mai Pasquale Miseri comprare del pane nella mia bottega, solo od in compagnia di Emidio D’Angelo detto Cuculo”.

“Sono Filodoro D’Angelo, comunemente chiamato Raffaele, fu Fedele Antonio, di anni 30, contadino di Penne.
Martedì giorno quattro di questo mese mi trovavo a cogliere le olive a Fonte d’Antò col padrone Signore Gennaro Pompei, quando verso le venti ore mi si presentarono due persone malvestite, una delle quali mi salutò, e dandomi la mano mi si fece conoscere per mio cugino Emidio D’Angelo. Feci le meraviglie di vederlo perché lo sapevo in carcere, ed egli mi disse che era fuggito da Gaeta con quel suo compagno.
Siccome io non sono in buoni rapporti con lui per una rissa che avemmo insieme per la quale finì condannato, non mi trattenni a discorrere e continuai a battere l’oliva. Parlarono invece col padrone e colle raccoglitrici, indi si diressero verso la Fonte d’Antò. Due giorni dopo, quasi all’istessa ora li vidi attraversare il fondo senza fermarsi. Quella volta il compagno del D’Angelo portava un fucile corto ad una canna, ed una borsa a tracolla. Il primo giorno aveva affermato che il D’Angelo aveva una pistola dentro una borsa di pelle legata sul fianco. Presero la direzione della masseria detta dei Colli, e da lungi ce li scorsi quasi sulla porta. Non so dire se vi siano entrati. Ignoro il nome degli abitanti di quella masseria.
Una delle coglitrici, e non so quale, mi ha detto che il compagno del D’Angelo le narrava di essere stato condannato per aver ucciso un Tenente dell’Armata a causa di gelosia.
Il D’Angelo è di media statura, piuttosto sottile, quando io lo vidi aveva la barba rasata. Teneva un dente guasto sul davanti della dentiera di sotto. L’altro è quasi della stessa statura, ma più complesso; mostra circa trentasei anni.
Ho riveduto il D’Angelo questa mattina nella contrada Teto, nel punto chiamato Ponticelli dove stavo lavorando con Francesco e Tobia Ricci sopra un fondo mio. Ci era anche a faticare mio zio Antonio D’Angelo. Io ero a capo del fondo. Ed ho visto che si fermò a discorrere coll’Antonio, e poi tirò dritto giù pel fosso. Veniva dal colle ove è la masseria del Barone Scorpione. Vestiva buoni panni da contadino di un colore olivastro, e portava un bel fucile a due canne, una valigia di pelle per caccia a tracolla, e due pistole sui fianchi oltre una daga.
Non mi consta dove si ricovera la notte”.

“Sono Annantonia di Giacinto figlia di Angelo, maritata Ricci, d’anni 26, nata a Bacucco, domiciliata a Penne.
Non fu il giorno sei come dice mia cognata Adelaide di Giacinto, sebbene il giorno due che si presentarono alla masseria due contadini malvestiti a chiedere un tozzo di pane di granone, che io diedi a titolo di carità; e senza conoscere chi fossero. Il giorno dopo gli stessi contadini si trattennero nell’oliveto a discorrere col padrone e colle coglitrici, ed ho poi saputo che eran fuggiti dal carcere ed uno era certo Emidio di Cuculo. Non so altro”.

“Sono Elisabetta Ferrante vedova di Marzio, fu Pasquale, di anni 35, filatrice, nata e domiciliata in Penne.
Il giorno diciotto di questo mese Vincenza alias la Misolla mi domandò se volevo comprare del vino. Ne contrattai un barile per lire dieci e centesimi cinquanta compreso il dazio, e mandai subito un facchino a caricarlo. Con la Misolla c’era Carlo D’Angelo che seppi allora essere il padrone del vino”.

“Sono Zopito Evangelista, fu Massimantonio, di anni 57, contadino di Penne.
Il giorno due di questo mese, che ricordo bene perché la Domenica dei morti, tornando a casa nel Marzengo, dalla città, insieme ai miei figli circa le venti ore, trovai in casa colle donne due contadini di media età, in uno dei quali ravvisai Emidio D’Angelo. Non mostravano di avere armi. Alle nostre interrogazioni il D’Angelo disse che aveva ultimato la pena cui era stato condannato, e che ambedue venivano molto da lontano, ed erano stanchi ed affamati, per cui domandavano del pane. Dopo qualche difficoltà io lo diedi. Il D’Angelo nel partirsene s’avviò verso Penne, e mi fece promettere di non parlare che io l’avessi veduto, confidandomi in pari tempo che esso ed il suo compagno erano fuggiti dal carcere.
Dopo quella volta non ebbi più occasione di vederli. Non mi consta in alcun modo che avessero relazioni con Vincenzo Ruscitti, Pasquale Zicola e Vincenzo D’Addazio. Quest’ultimo è un povero infelice, sordo, e giovane di buona condotta. Il Zicola è un po’ elastico e prepotente”.

“Sono Zopito di Benedetto, fu Donato, di anni 37, contadino di Penne.
Ho preso in affitto dal Signor Penna di Atri una masseria al Colle della Stella, sopra l’altra abitata da Antonio Zicola e figli, e sto ora occupato a portarmi le masserizie. Ho cominciato ad abitarvi non prima di venerdì ventuno andante mese. La casa era prima disabitata perché in costruzione. I Zicola appena li conosco. Non ho visto mai Emidio D’Angelo dopo che egli evase dal carcere.
E’ inutile che sentiate mio fratello Antonio il quale non ancora lascia la masseria vecchia e non conosce alcuno in questa contrada”.

“Sono Gaetano di Marcoberardino, fu Giuseppe, di anni 29, contadino di Penne.
Una notte che non so indicare, sul principio di Novembre, fu bussato alla mia abitazione presso il Camposanto, e ribussato ripetutamente, perché io mi attardai a non voler aprire. Voci da fuori dicevano - siamo amici -. Fattomi a guardare dal buco della chiave, vidi Carlo D’Angelo che già avevo riconosciuto dalla voce, ed altri due che non riconobbi. Uno di questi portava un fucile: a Carlo non ho visto armi. Non so altro”.

“Sono Camillo Giusti, di Armando, di anni 47, ammogliato con figli, nato e domiciliato a Picciano.
Al di là del Colle della Stella, vicino alla masseria di Filippo di Giovanni, incontrai un individuo armato di baionetta che seppi essere Emidio D’Angelo soprannominato Cuculetto.
Egli mi si fermò e mi domandò dove andavo, che cosa portavo e se avevo veduto carabinieri od altra gente. Io gli risposi che andavo a Penne a portare delle lettere, e che non avevo veduto carabinieri, né altre persone.
Ebbi molta paura, e dubito che per quella sia caduto malato, ora però sono guarito quasi perfettamente.
Quando incontrai il Cuculetto, come ho detto di sopra, fu l’undici di Novembre, e non so altro”.

“Sono Enrico Fornarola, fu Emidio, di anni 46, calzolaio di Penne.
Da tre mesi ho cessato di essere vicino di casa di Carlo D’Angelo e famiglia. Costui era in allora appena sortito dal carcere.
Nulla so dire della sua condotta e delle relazioni in cui possa essersi trovato col suo fratello Emidio”.

“Sono Ludovico Pizzi, fu Carlo, di anni 36, sarto di Penne.
Sono almeno due mesi che la famiglia D’Angelo avendo cambiata casa ha cessato di essermi vicina. E’ notorio che la detta famiglia ha fiancheggiato con grandissimo impegno il figlio Emidio, fuggito dal Bagno di Gaeta, e credo bene che l’altro figlio Carlo non abbia fatto meno degli altri perché è un triste soggetto come lo sono tutti della famiglia. La madre fu persona di pena per furto; due altri figli stanno in carcere quale per furto e quale per ferimento. Non mi consta che il compagno di fuga dell’Emidio sia stato ospitato in casa loro. Non so più di questo”.

“Sono Giovanni Russo fu Silvestre, di anni 40, contadino di Penne.
Confermo che la notte del due Novembre vennero a casa mia Emidio e Carlo D’Angelo con uno sconosciuto compagno di Emidio. Questi tre dopo aver mangiato e bevuto se ne andarono insieme. Al Carlo D’Angelo non ho veduto armi”.

Il giorno 9 Novembre 1873, il Comandante Provinciale dei Reali Carabinieri rimise al Procuratore del Re presso il Tribunale Correzionale di Teramo, il seguente rapporto:
“Oggetto: Ricatto del Canonico Perrotti, per opera di D’Angelo Emilio ed Ursi Andrea.
Ho l’onore di riferire alla S.V. Ill.ma che da un rapporto del Sig. Comandante il Circondario di Penne in data 7 andante N° 3126, traggo che nella sera del 4 detto alle ore 5, al luogo denominato Comarchia a due chilometri da Penne, due evasi dal Bagno di Gaeta, D’Angelo Emidio ed Ursi Andrea, ricattavano il Canonico Perrotti Don Simone, fu Massimantonio, d’anni 70, mentre faceva ritorno da una sua Villa, al suo domicilio in Penne, e condotto in un Pagliaio detto Marzengo, in tenimento del Comune di Loreto Aprutino, ove giunti fecero scrivere al ricattato un biglietto al Nipote Perrotti Massimo fu Raffaele, d’anni 30, pure domiciliato in Penne, che il D’Angelo, lasciato il Canonico in custodia dell’Ursi, portava quel biglietto ad una vicina Masseria del ricattato stesso e consegnato al contadino, Toppeta Domenico, questo lo portò a destinazione; il destinatario prese seco Lire 800, ed altre Lire 400 le consegnava al contadino Toppeta e si diresse verso il luogo indicato, che era il viale di S. Francesco in prossimità di Penne, ed ivi trovato il D’Angelo Emidio, li condusse al luogo ove stava il ricattato, ed ivi consegnata la somma lo lasciavano in libertà, con ingiunzione però di mandargli col mezzo del contadino Toppeta qualche altra somma, perché le Lire 1200 erano poche.
Tale fatto fu taciuto e dal ricattato e dal Nipote fino al giorno 7 andante, giorno in cui fu poi da quest’ultimo denunciato all’Arma locale, per cui il Sig. Comandante il Circondario si portò in luogo a verificarlo e per prendere indagini nella direzione presa dai due malfattori, per le ulteriori disposizioni.
Siccome poi l’Arma era avvertita che què due evasi furono visti nei dintorni di Penne, così era disposta una pattuglia anche in direzione ove avvenne il ricatto ma che nulla subdorò”.

Il giorno 11 Novembre 1873, Massimantonio Perrotti, nipote del Canonico, tornò nuovamente al cospetto del Pretore di Penne, per aggiungere nuove dichiarazioni al suo precedente verbale di denuncia. E tanto disse:
“Nelle precedenti querele ho taciuto un fatto, che vengo ora a rivelare.
Quando seguivo l’Emidio D’Angelo alla capanna del Marzengo mi ero armato di un revolver per difendermi all’occorrenza dai malfattori, e lo tenevo nella tasca dei calzoni entro una busta di pelle lucida nera. Il D’Angelo se ne accorse, ed alla sua domanda dissi  che portavo il revolver, non per offendere ma per mia difesa. Anch’io lo porto soggiunse egli, e mi fece vedere sotto l’abito qualche cosa che somigliava all’impugnatura di uno stile. Come fummo nel piano di Casa Valignani, quel malfattore d’improvviso mi appuntò al petto un lungo stile, e prima di levarmi il denaro mi tolse l’arma. Il Domenico Toppeta ne può far fede.
Era un revolver che comperai in Ancona in Agosto, o Settembre ultimi dall’armaiuolo Alfieri colle cariche adatte, del calibro da dodici, a moto continuo, liscio nel metallo, granellato nel manico di noce.
Lo saprei riconoscere rivedendolo.
Non ho parlato prima di questo fatto perché temevo di incorrere in qualche penalità come portatore d’arma senza licenza. La circostanza per la quale uscii di casa col revolver mi sia di scusa”.

Il Pretore di Penne, in data 11 Novembre 1873, rimise al Procuratore del Re presso il Tribunale Correzionale di Teramo il seguente dettagliato rapporto:
“Oggetto:

  1. Emidio D’Angelo di Tommaso, detto Cuculo;
  2. Andrea Ursi;
  3. Pasquale Zicola di Antonio;
  4. Antonio d’Addazio.

Imputati:
I primi due di estorsione della somma di Lire 1200:00, con sequestro di persona, in danno del Canonico Simone Perrotti.
Gli altri di complicità in detto reato.
Reati commessi a Penne nei giorni 4 e 5 Novembre 1873. Art. 601 e 602 Cod. Penale.
Di seguito al mio rapporto, Le riferisco quanto segue.
Questo Canonico Simone Perrotti, persona avara e facoltosa, nel tornare da una sua masseria sita ad un chilometro da Penne, fu avvicinato circa le 24 ore del giorno 4 corrente mese da due contadini i quali, col pretesto di dargli una preghiera, fecero allontanare Domenico Antonioli che andava con lui; e datogli uno di essi a conoscere pel suo compagno Emidio D’Angelo detto Cuculo, evaso recentemente dalle carceri di Gaeta, lo spinsero fuori dalla strada rotabile giù pel colle nella contrada Ca-Valignani, ed attraverso i campi e giù per fossi, lontano dalle masserie, lo condussero in un Pagliaio in contrada Marzengo.
Dopo avergli fatto scrivere un biglietto, prima dell’alba il D’Angelo si mise in viaggio per Penne dove arrivò a giorno fatto in una masseria del Perrotti situata nella piana di S. Francesco, quasi alle porte della città, e senza annunciare chi fosse mandò il soccio Domenico Toppeta a portare le chiavi e la lettera al Massimo Perrotti. Costui aveva passato la notte in inquietudini per l’assenza ingiustificata dello zio. Letto che ebbe il foglio, partì nel piano di S. Francesco a parlare col contadino, nel quale riconobbe il D’Angelo, poi fece ritorno a casa per prendere denaro. Fece due pacchetti, l’uno di quattrocento lire, che consegnò al Toppeta, con ordine di recarlo a D. Simone seguendo l’uomo che l’aspettava, l’altro di lire ottocento, che si pose in tasca. Era sua intenzione di lasciare che il suo soccio andasse solo al D’Angelo, e di mettersi in luogo dove all’occorrenza il soccio potesse venire a trovarlo se esigesse maggior moneta delle lire quattrocento. Ma fece male i suoi calcoli perché il D’Angelo come ebbero superate le masserie di Ca-Valignani, dove per la giornata piovosa non si vedeva persona benché fossero già passate le ore sette, gli diede di mano, minacciandolo collo stile, e gli tolse il pacco, la qual cosa fece anche col Toppeta, indi li cacciò innanzi guidandoli per disastroso cammino fino alla capanna nel Marzengo.
Colà stava lo zio legato nelle mani con una cinta di pelle.
Il compagno del D’Angelo che stava in guardia col fucile l’appuntò contro il Massimo Perrotti, indi colla violenza lo spinse dentro il pagliaio. Fu intascato il denaro che non appagava le esigenze dei due malfattori. Dovettero perciò promettere i due Perrotti di dare altre lire quattromila in due rate a scadenze fisse, e dopo questo furono lasciati liberi circa le ore 10 a.m. con minaccia di morte ed altri danni se parlavano; del che impauriti tacquero fino al giorno sette.
Avutane io notizia dalla Pubblica Sicurezza alle ore 3 p.m. di detto giorno attivai subito le indagini, e la mattina seguente mi son portato colla forza e coi querelanti sopra luogo.
Il punto di fermata a fonte d’Antò è vicino alla strada che da Penne guida a Picciano e Collecorvino. Attraversando quella strada si giunge subito nel Marzengo, contrada piana, percorsa da un fosso, e circondata da colli. La capanna ove fu ricoverato il canonico Perrotti sta quasi nel centro. La masseria più vicina è quella abitata da Raffaele Marini. Dista duecento passi circa, però da quella non si scorge la capanna per l’ingombro delle piante. Ma le masserie sui colli abitate da Vincenzo Ruscitti, il padrone della capanna, da Antonio, Pasquale, Pietro e Salvatore Zicola, e da Giovanni ed Antonio padre e figlio D’Addazio, dominano l’alto, vedono sotto distintamente la capanna nella campagna rasa, a distanza pressocchè eguale, di circa trecentocinquanta metri. Eppure nessuno di quegli abitanti ha ammesso di aver veduto i malviventi ed i due Perrotti, prendendo a scusa il tempo cattivo che li tenne dentro casa.
Ho perquisito tutte quattro quelle masserie senza utile. Solo nella abitazione di Pasquale Zicola il Canonico Perrotti ha riconosciuto il lume di ferro a mano con coverchio mal saldo, adoperato per illuminare la capanna quando fu scritta la lettera.
Questa circostanza mi ha determinato a fare immediatamente arrestare il detto Zicola, e vi fu rinvenuto anche buona provvista di grano vecchio e di farina di grano, superiore alla sua condizione, nonché la somma di lire 26:60.
Egli è indiziato anche dalle indicazioni del Perrotti sulla direzione presa quando il D’Angelo partì dalla capanna, e dalla posizione della sua masseria in rapporto al punto di fermata nella contrada d’Antò.
Ho fatto arrestare anche Antonio D’Addazio, riconosciuto dal Canonico Perrotti per un tale che la mattina del cinque si era portato a cinque o sei passi dall’apertura della capanna a cogliere un mazzo di vimini dalle piante lungo il fosso.
La capanna era chiusa con un mazzo di canne in guisa però che dalle larghe fessure il Perrotti potè vedere che quell’uomo guardava sotto occhi. E’ verosimile che costui avesse coi malfattori qualche intelligenza. La sua casa è la più vicina al ripetuto punto di fermata in contrada d’Antò.
Egli nega di aver veduto persone nella capanna.
Anche lo Zicola è negativo di aver prestato il lume, o dato aiuto altrimenti ai malfattori.
Quegli sono arditissimi e si tengono anche in giornata nelle vicinanze di Penne, mostrandosi a tutti liberamente. Nel giorno  del fatto e nei successivi frequentarono specialmente la contrada fonte d’Antò.
Proseguono le indagini”.

Infatti:

“L’anno 1800settantatre, il giorno diciotto novembre. In tenimento di Penne, alla contrada Marzengo/Frazione/Incasale/.
Noi Carlo Quadrio Pretore del Mandamento di Penne, assistiti dal sottoscritto Vicecancelliere.
Volendo accertare quando tempo s’impieghi a percorrere il tratto dalla masseria di Pasquale Zicola alla capanna di Vincenzo Ruscitti nel piano sottostante, abbiamo assunto a perito Giuseppe Ferri, di Emidio, di anni 28, bracciante, di Penne, il quale nelle forme di rito e previe le prescritte ammonizioni ha giurato di bene e fedelmente procedere nelle operazioni che gli saranno demandate, e di non aver altro scopo che quello di far conoscere ai giudici la semplice verità.
Dopo ciò, sempre sotto i nostri occhi ha percorso il tratto suindicato, giungendo alla capanna in due minuti e mezzo, e facendo ritorno in cinque minuti col passo ordinario.
Lo stesso esperimento si è fatto a misurare il tempo necessario a percorrere la distanza dalla masseria Zicola al punto di fermata dei due malfattori e del ricattato alla contrada Fonte d’Antò sul terreno di Gennaro Pompei.
Il perito ha fatto quella strada impiegando fra andata e ritorno undici minuti.
Noi abbiamo tenuto presente l’orologio.
Il perito ci ha detto che tenendo il passo ordinario ci vogliono sette minuti e mezzo per andare e venire dalla masseria di Pasquale Zicola alla capanna, ed undici minuti fra l’andata ed il ritorno dal fondo designatomi dalla S.V. nella vicina contrada fonte d’Antò.
Del che si è redatto il presente verbale che dietro lettura e conferma è stato sottoscritto dall’Ufficio procedente”.

Il giorno 20 Novembre 1873, il Pretore di Penne Carlo Quadrio mise a verbale le risposte fornitegli da Massimantonio Perrotti, nipote del Canonico.
“Il Domenico Toppeta non conosceva, né poteva conoscere il D’Angelo perché all’epoca della di lui carcerazione non aveva che dodici o tredici anni. Tanto meno sapeva le sue intenzioni. Io sortii due volte a San Francesco, la prima per incontrarmi col D’Angelo, la seconda per portagli il denaro. Appena lo vidi giudicai che fosse della famiglia troppo conosciuta dei Cuculo. Voleva darmi ad intendere che il biglietto glie lo aveva dato un’individuo per istrada mentre si dirigeva a cogliere le olive del suo padrone, poi con altre parole mi lasciò capire che esso sapeva il contenuto della lettera. Dove era mio zio non me lo volle dire. Persuaso che egli correva pericolo retrocedetti a prendere il denaro, come ho già dichiarato.
Non ricordo bene le monete che componevano la somma. Ci erano due o tre biglietti della Banca Nazionale da lire cento, tre o quattro da lire cinquanta del Banco di Napoli, molti da lire dieci e da lire cinque. I biglietti da cinquanta me li aveva dati un acquirente di grano, e portavano, fra le altre, la firma di un tal Vincenzo Monticelli di Pianella. Presi tutto quello che ci stava, ed il conto l’ho fatto senza verificare certi pacchetti di carte-monete sui quali stava scritto l’importo. Lo zio può ricordare i valori dei biglietti meglio di me.
Il fucile del compagno del D’Angelo era ad una sola canna, corta e di rozza incassatura. Non ci feci molta attenzione e perciò non sarei in grado di riconoscerlo se lo rivedessi. Non vidi alcun lume dentro la capanna del Marzengo”.

Pasquale Zicola e Antonio D’Addazio, arrestati per complicità nell’estorsione il giorno 8 novembre 1873, furono rinchiusi in carcere fino al 5 febbraio dell’anno successivo, quando la Camera di Consiglio presso il Tribunale correzionale di Teramo emise la seguente sentenza:
“Poiché la complicità nella estorsione in rubrica contro Zicola e D’Addazio non trova riscontro negli indizi raccolti a loro carico. Letti gli articoli 248, 250 e 786 del rito penale; dichiara di non darsi luogo a provvedimento penale per insufficienza d’indizi, per la complicità nella estorsione di lire 1200.00 in danno del Canonico Simone Perrotti; ed ordina che siano scarcerati”.

Relativamente all’evasione del brigante D’Angelo, il Procuratore del Re di Cassino (competente del Mandamento di Gaeta), comunicò al suo omologo di Teramo quanto segue:
“Porgendo riscontro alla riservata contradistinta nota, Le manifesto che a carico del condannato Emidio D’Angelo di Penne non vi fu provvedimento per la sua fuga dal Bagno di Gaeta, poiché evase senza rottura del luogo di pena e senza aver usato violenze. Vi fu solo procedimento contro i Guardiani Genga Giovanni e Bossetti Giovanni i quali con sentenza del 24 andante furono assoluti da questo Tribunale perché non ritenuti colpevoli della negligenza loro ascritta sulla fuga del suddetto detenuto”
.

 

Google Maps: Il luogo del sequestro del Canonico in contrada Costacomacchio

 

 

Google Maps: La località di contrada Marzengo

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