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Cuculetto il brigante di Penne

PREMESSA

 Ci sono briganti e briganti e per questo motivo è opportuno distinguere quelli mitici, in qualche modo politicizzati, da quelli che furono dei veri delinquenti, spinti non da ideologie.
Definirò Cuculetto brigante, ma solo per collocarlo fra le persone la cui attività avvenne fuori dalla legge: userò il termine brigante quale sinonimo di bandito.
Tratterò gli eventi che hanno caratterizzato la storia criminale di Emidio D’Angelo, il brigante di Penne, forzatamente chiamato Sparacannone, e della sua famiglia attraverso la loro ricostruzione storica.
Quello di Sparacannone risulta essere il soprannome venuto fuori dalla fantasia di un cantastorie, il quale, una volta anonimizzato il personaggio, trovò il modo più semplice di poterne narrare le vicende in gran parte inventate o frutto della fantasia popolare e, nel contempo, di sfuggire anche alle ire dei discendenti.
In questo libro su Cuculetto, citerò solo i fatti realmente accaduti e chiamerò le persone col proprio nome, cognome e soprannome, come riportati negli atti ufficiali. Tutto questo per ristabilire la verità storica circa gli accadimenti che influenzarono, se non addirittura sconvolsero, la vita degli abitanti di Penne e delle zone limitrofe, nel corso della seconda metà del 1800.
Animato sin da piccolo da una grande curiosità nei confronti dei fatti crudeli compiuti dal brigante di Penne, ho sempre mantenuto vivo il desiderio di approfondirne la conoscenza, per poter distinguere la realtà da quella che fu la credenza popolare giunta fino a noi.
Attraverso una meticolosa raccolta, prima, e lo studio, poi, di una documentazione piuttosto corposa, la cui reperibilità non è stata semplice, ho riportato nelle pagine che seguono i risultati della mia ricerca per condividerli con quanti, pennesi e non, siano mossi dalla mia stessa voglia di “sapere”.
Non privo di difficoltà è risultato il lavoro d’interpretazione dei documenti, costituiti da atti processuali manoscritti che contengono anche corrispondenze autografe.
Il risultato ottenuto è stato reso possibile grazie alla personale tenacia e alle fonti messe a disposizione dall’Archivio di Stato di Teramo e da quello Storico del Comune di Penne.

PRESENTAZIONE

  Le malefatte commesse da Emidio D’Angelo, detto Cuculetto, tramandateci sotto forma di leggenda, sono sfuggite alla storia per circa 150 anni.
La leggenda, com’è noto, non è, però,  frutto soltanto della fantasia popolare, poiché contiene sempre un nucleo di verità intorno al quale l’immaginario collettivo elabora una narrazione ricca di elementi fantastici.

Sulla vita burrascosa trascorsa da Emidio D’Angelo esiste una rilevante documentazione mai consultata prima e risultata molto utile a  “correggere” quanto in un secolo e mezzo è stato prodotto dall’inventiva popolare.
Nel periodo post-unitario, la situazione economica nella Città di Penne era la medesima gravemente compromessa dell’allora meridione italiano. In questo contesto, intrappolati nella rete della povertà e dell’ignoranza, il padre Tommaso, detto Cuculo, e la madre Angela Rosa non tentarono di trasferire, né ad Emidio, né tantomeno agli altri cinque figli, un modello di vita che avesse alla base il presupposto dell’onestà. Ne danno conferma le schede del casellario giudiziario di tutti i componenti la famiglia che, una volta consultate, hanno rivelato dei retroscena a dir poco inquietanti. Emidio, ancora giovane, diede il via alla sua carriera delinquenziale perpetrando alcuni furti; attività largamente praticata anche dagli altri membri della sua famiglia.
Nell’anno 1864, poco più che ventenne, Cuculetto, lusingato dalle promesse fattegli da don Simone Perrotti, Canonico della Cattedrale di Penne e ricco possidente terriero, commise su commissione di costui l’omicidio di tale Francesco Di Giovanni.
Arrestato e processato per il delitto, Cuculetto fu condannato a 20 anni di lavori forzati da scontare nel carcere di Gaeta. Durante le fasi del processo, però non menzionò mai il mandante del delitto e sostenne sempre la tesi  che ad armare di pugnale la sua mano fu un vecchio rancore serbato nei confronti della vittima.
Nell’anno 1873, quando oramai aveva già scontato la metà della sua pena, il detenuto riuscì ad evadere dal bagno penale di Gaeta con un compagno di sventura, così da poter raggiungere insieme la città di  Penne.

A spingerlo verso il capoluogo vestino non fu certo l’attaccamento per il suo luogo natio, ma il desiderio di rivalersi nei confronti del Canonico Perrotti.
Infatti, una volta giunto a destinazione e dopo aver commesso alcune aggressioni per dotarsi di un armamento adeguato, Emidio D’Angelo mise in atto una operazione intimidatoria nei confronti del prete, con la copertura dei propri familiari e spalleggiato dal compagno d’evasione, per ottenere l’indennizzo dell’omicidio a suo tempo commissionatogli.
Per essere più incisivo nelle richieste, dopo poco meno di una settimana dal suo ritorno a Penne, sequestrò il Perrotti, chiedendo al nipote una ingente somma di denaro per il suo rilascio. Del riscatto, però,  venne pagato soltanto un anticipo. Il prete promise di saldare il conto una volta lasciato libero.  Ma l’impegno non fu onorato, indisponendo parecchio Cuculetto, tanto che maturò la decisione  di ucciderlo. L’assassinio fu compiuto in presenza di tre testimoni che, intimiditi, una volta interrogati, negarono in un primo momento di aver assistito al delitto.
Durante il periodo in cui il D’Angelo scorrazzava per l’agro vestino, nell’arco di tempo circoscritto al mese di novembre dell’anno 1873, la popolazione visse in un clima di forte apprensione, tanto che molti evitarono di uscire di casa soprattutto nelle ore notturne.
Dopo circa quindici giorni dall’uccisione del Perrotti, la latitanza di Cuculetto si concluse in seguito alla sua cattura da parte dei  Reali Carabinieri di Penne, che con un  conflitto a fuoco lo assicurarono alla giustizia, ferito ad una coscia.
Di fronte ai giudici, il “brigante” con molta scaltrezza cercò di negare tutte le accuse pendenti a suo carico.
Alla fine del processo, il Tribunale di Teramo lo condannò ai lavori forzati a vita da scontare nel carcere di Civitavecchia.
Oramai vecchio e sofferente, avendo serbato buona condotta per circa quarant'anni ininterrotti di reclusione, Cuculetto ottenne la grazia sovrana e trascorse, così,  gli ultimi anni della sua vita a Penne: morì all’età di 82 anni, ospite della Congrega di Carità, presso l’ospedale annesso al convento di Santa Chiara.

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